mercoledì 27 novembre 2024
L'azzurro: «Lo sport aiuta a credere in sé stessi. Ma le narrazioni "pietistiche" non fanno bene al nostro mondo. Ho fatto il volontario con i francescani, ammiro il loro amore per il prossimo»
Simone Barlaam, 24 anni, 4 ori paralimpici e 19 titoli mondiali

Simone Barlaam, 24 anni, 4 ori paralimpici e 19 titoli mondiali - ANSA

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«C’è un film in cui mi sono rivisto sin da bambino, è Alla ricerca di Nemo: il pesciolino ha la sua pinna atrofica, io una gamba più corta…». Parola di uno degli sportivi più vincenti di sempre: il nuotatore Simone Barlaam, 24 anni, nato con coxa vara e ipoplasia congenita del femore destro. Eppure nella sua bacheca brillano, tra i tanti trofei, quattro ori paralimpici e diciannove titoli mondiali. L’acqua è il suo mondo, «ma adesso sono abbastanza a mio agio anche sulla terraferma», assicura. Uno che, come ama ripetere, ha imparato a stare a galla prima che a camminare. Impavido di fronte alle sfide, anche quella per nulla scontata di rientrare in sé stessi per rileggere la propria storia, in modo schietto e con autoironia: «Mi piace il basket, mi sarebbe piaciuto praticarlo, ma scoordinato come sono fuori dall’acqua, sarei stato scarso…».
Nella sua vita però non c’è posto per i rimpianti.
«Per nulla. Se non avessi avuto la disabilità, magari non sarei stato nemmeno uno sportivo. E se mi manca qualcosa non è sicuramente a causa della disabilità: io sono nato così, quindi questa è stata sempre la mia normalità. Anche i momenti difficili della mia vita sono legati alla normalità di ogni essere umano, ai problemi che hanno tutti crescendo».
C’è una tendenza forte nella nostra società a non accettare di essere incompiuti o imperfetti. E l’ossessione alla perfezione fisica è diffusa soprattutto tra i giovani.
«Ognuno di noi si scontra con i propri limiti. Soprattutto chi fa esperienza di una disabilità deve fare i conti con una diversità. Ma è bello vedere come attraverso lo sport riusciamo ad abbattere le barriere: sia quelle architettoniche, sia quelle nella mente di chi ci guarda. Osservare le performance strepitose degli atleti paralimpici è incredibile».
Non c’è paradossalmente il rischio di sentirsi poi onnipotenti?
«No, almeno per me. Solo una persona con disabilità può capire tutti i limiti che ci sono nel quotidiano. Lo sport paralimpico non è un modo per sentirsi onnipotente perché nessuno è onnipotente a questo mondo. Anzi, per quanto magari i social possano farci sembrare forti all’esterno, ognuno di noi sa quanto sia dura la quotidianità. Nessuno può mentire a sé stesso. Piuttosto lo sport ci aiuta a non cadere nella tentazione opposta, quella di non avere fiducia in noi stessi e nelle nostre capacità».
Quanto è difficile accettarsi per come si è?
«Mi rendo conto che non sia facile. Soprattutto se la disabilità sopraggiunge dopo un incidente o una malattia. Io però sono stato fortunato ad essere circondato da persone amorevoli come la mia famiglia e i miei amici che mi hanno sempre trattato con totale normalità. I miei genitori mi hanno permesso di fare tutte le mie esperienze, belle e brutte, senza tenermi in una teca di vetro a casa e questo mi ha permesso di essere dove sono ora».
Nel trattare lo sport paralimpico spesso si scade in una narrativa pietistica...
«È vero, succede e mi dà fastidio. Non si sottolinea il gesto atletico ma si indugia sulla storia strappalacrime. È un peccato perché spiegare invece tecnicamente cosa comporta una patologia aumenterebbe il livello di conoscenza e farebbe cadere tanti pregiudizi».
A proposito di allargare lo sguardo, di recente ha prestato servizio alla mensa dell’Opera San Francesco.
«Desideravo da tempo fare volontariato ma non riuscivo mai a trovarne il tempo. L’ho fatto ed è stata un’esperienza super gratificante e bellissima. Mi ha colpito il modo di operare nel concreto dei francescani. Non so se definirmi credente in senso tradizionale ma ci sono molti valori e insegnamenti cattolici nella mia vita: l’amore e il rispetto del prossimo, l’immedesimarsi nell’altro come fanno all’Opera San Francesco dove trattano tutti con uguale dignità. Una persona è sempre una persona al di là della sua condizione».
Tra le sue passioni è predominante il disegno.
«È nata da piccolino in modo automatico su un letto di ospedale, dato che non potevo fare molto altro. Quando ero ingessato dalla vita in giù ogni tanto giocavo ai videogiochi, però quello mi faceva salire troppo i battiti del cuore e partivano gli allarmi in tutto il reparto… Ho dovuto trovare un hobby più tranquillo. Mia madre ha cominciato a disegnarmi gli animali marini e ne sono rimasto affascinato. Ho cominciato a gettare su carta tutto quello che avevo in testa e mi ha aiutato tantissimo».
Un talento che ha spinto il Comitato paralimpico italiano ad affidarle un racconto a fumetti delle tappe principali del percorso verso i Giochi invernali 2026.
«Sono da sempre appassionato di fumetti. Ho cominciato con la Pimpa e poi crescendo ho amato molto gli artisti giapponesi. Fondamentali per me sono stati alcuni manga come Le bizzarre avventure di JoJo scritto e disegnato da Hirohiko Araki. O anche Real la serie di Takehiko Inoue che già agli inizi degli anni 2000 aveva cominciato a parlare di sport paralimpico e di basket in carrozzina, in una maniera davvero sorprendente».
Che stimoli può avere uno sportivo come lei che ha vinto già tutto quello che si poteva vincere?
«Sono abituato a non crogiolarmi sugli allori. E finché sentirò di poter dare qualcosa nello sport lo farò. In futuro mi piacerebbe costruire una famiglia, però per ora sento di avere ancora margini di miglioramento come atleta ma anche come persona. Perché alla fine ciò che conta è continuare a lavorare su sé stessi nella propria interiorità: le medaglie e i risultati saranno solo una conseguenza».

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