A 92 anni, suonati il 22 maggio scorso, Charles Aznavour non ha perso ironia e teatralità: anche la hall dell’hotel in cui ci incontriamo per l’intervista è un palcoscenico. Barcolla scendendo le scale, finge di cadere e quando accorriamo per sorreggerlo ride con agilità, «ci siete cascati!».
L’appuntamento in Arena con gli ottomila appassionati giunti a Verona da tutta Italia per l’unico concerto nazionale del chansonnier sarà la sera stessa, ma per "Avvenire" trova il tempo e l’entusiasmo: «Il giornale dei cattolici? Ho scritto una lettera a papa Francesco, lo scriva la prego, desidero assolutamente incontrarlo ma ancora non ho avuto risposta».
Aznavour è icona della musica nel mondo ma è anche il figlio di profughi armeni sopravvissuti al genocidio turco, e Francesco a Erevan lo ha chiamato proprio così, «genocidio », chiedendo alle due parti un cammino di riconciliazione. «È stato coraggioso», si anima Aznavour, «era la seconda volta che parlava del genocidio armeno, incurante della timidezza con cui il resto del mondo, tranne la Germania, tace».
Ambasciatore all’Onu per l’Armenia, testimonial instancabile dei diritti del suo popolo, non cade però nella tentazione di facili generalizzazioni, nemmeno quando gli si chiede con quale animo visse la lunga notte del “golpe” che a luglio sembrava aver rovesciato il potere di Erdogan: «Non mi piace la politica e quindi non giudico, mi limito a sperare che in futuro si sappia veramente che cosa è successo. Io dei turchi non ho mai parlato male, li rispetto... spero che un giorno loro rispettino noi alla stessa maniera». Touché.
Nato a Parigi, scoperto e reso famoso nel 1946 (70 anni fa!) da Édith Piaf, è quanto di più francese si possa immaginare, eppure è la prova vivente che le radici non si scordano: «Io sono armeno al cento per cento e sono francese al cento per cento. Ho due culture, quella del cuore e dell’anima è armena, quella della scuola e del sapere è francese. Non mischio mai le due, ognuna resta un cento per cento». E soprattutto è cittadino del mondo, non tanto per i milioni di spettatori che lo hanno idolatrato nei 94 Paesi in cui ha portato i suoi concerti e nemmeno per le sette lingue in cui canta, ma perché l’umiltà e il senso della misura lo tengono ancorato alla realtà: «Io sono cristiano, ma mi sento bene con tutte le persone di buona volontà di qualunque religione, se sono persone buone lo sono a prescindere dal fatto che siano cattoliche, ortodosse, musulmane, ebraiche... e quando ne incontro, facciamo sempre lunghissime conversazioni. È così che dovremmo tutti vivere, questa sarebbe l’intelligenza perfetta. Quando ero bambino – sorride – ero un bravo chierichetto non alla chiesa armena ma a quella cattolica, perché era la più vicina a casa».
Che sia umile non per vezzo ma per carattere è di tutta evidenza. Rifiuta la definizione di star («per carità, mi consideri un artigiano») e si presta a qualsiasi domanda, nessun argomento è sgradito. Nemmeno il grande traguardo finale, che a 92 anni tratta con leggerezza. «La morte non mi fa paura, mi preoccupa», distingue, «ormai dovremmo essere abituati, quando si è nati si muore di sicuro». Il faut savoir, canterà la sera in Arena, “devi sapere lasciar la tavola, alzarti con indifferenza”, e giù applausi, “devi sapere lasciar la vita”, e il pubblico canta con lui, “ma l’amo troppo ancor e dirle addio non so”... devi sapere, sì, “però io non lo so”. La ama e la vive intensamente, ci dice, «perché la mia più grande virtù è la curiosità», quella con cui tuttora guarda il mondo senza la presunzione dei grandi maestri («apprezzo tanti cantanti di oggi, non sono uno che parla male dei colleghi giovani, non fa parte della mia deontologia») e scruta il grande traguardo scherzando su come andrà a finire: «Se mi sento pronto per il paradiso? Be', non so se esistono paradiso e inferno, ma per me la mia vita di tutti i giorni è il paradiso e la morte è la porta dell’inferno... Anche se poi a ben pensarci forse è proprio il contrario. Vedremo». Che cosa gli dirà, quando si incontrerà faccia a faccia con Dio? «Non ho fatto nulla di male, fammi entrare».
Nel frattempo continua la sua avventura umana, dopo la tappa italiana di Verona, dov'è approdato dal tutto esaurito di Giappone e Spagna, proseguirà il tour negli Stati Uniti, mentre presto darà alla luce quattro dischi, uno in italiano, uno in francese, uno in spagnolo e l’ultimo in inglese... «in realtà non so se sarà l’ultimo, ne ho in programma anche uno in russo, dato che ho un buon accento». E in tutte le lingue si esibisce a sera anche in Arena, dove con quasi due ore di spettacolo ininterrotto dimostra che un mito, anche se ha la voce stanca, resta un mito. L’ovazione degli ottomila accoglie il suo ingresso ed è subito chiaro che l’istrione è ancora lui, capace con un gesto o un passetto di danza di incantarci tutti e farci fare ciò che vuole. “Se mi date un teatro e un ruolo adatto a me, il genio si vedrà”, canta in italiano, e il suo metro e sessanta di statura giganteggia sul palco.
Elegante, signore, commuove e diverte. Parla sempre in francese, scherza con la gente e così accorcia le distanze, lui che non sopporta i teatri in cui il pubblico siede lontano. «La mia voce è cambiata», confessa quasi subito, conscio che in molti non lo ascoltano dal vivo da qualche anno, ma poi rassicura, «ho 92 anni e non mi fermo, ho ancora tanto da fare. Mia madre diceva che per vivere a lungo bisogna evitare zuccheri, grassi, sale... ne ho fatto largo consumo e sono ancora qui».
È proprio L’Istrione a tradire qualche difficoltà di ritmo e intonazione con i sette musicisti che lo accompagnano, ma a nessuno importa, il mattatore continua la sua corsa, macina capolavori come Lei e Ieri sì, ammicca con Quel che non si fa più mentre manda in visibilio il pubblico accennando ai passi di un lento, coinvolge con un’intensa Ave Maria, commuove con l’applaudita Com’è triste Venezia, letteralmente travolge con la pirotecnica Les deux guitares. Quando intona la triste e francesissima Bohème non si può più tacere e il pubblico la mormora in coro.
Aznavour non cede un istante, balla, canta, scherza, una volta duetta con la figlia corista, Katia Aznavour. Impeccabile nel suo completo nero, si toglie con nonchalance la giacca: il palco, ogni palco, è casa sua. «Se vedete che mi chino è perché mi sono scordato il testo di qualche canzone e devo leggere il “gobbo”. Lo fanno tutti gli artisti, ma io sono il solo che lo ammette», ride.
“La bohème, sento una voce e penso a lei... La bohème, indietro non si torna mai...”, e il concerto volge al termine. È triste veramente, Venezia, è struggente, anche se per vincere l’emozione si cerca anche noi di fare “dell’ironia davanti a quella luna”, e la luna splende davvero nel cielo dell’Arena. L’ultima è Emmenez moi, vorticosa e sempre più rapida, come una giostra francese, “vorrei volare via lasciando il mio passato, senza rimorsi, senza bagagli, il cuore liberato”, canta Aznavour, ed è un saluto senza bis. Rimette la giacca e voilà. Com’era apparso sparisce.