Domenica 9 giugno 1940. All’Arena di Milano si conclude il XXVIII Giro d’Italia. Il vincitore è un giovane corridore ancora poco noto al grande pubblico. «Il coscritto Fausto Coppi», come titola a tutta pagina "La Gazzetta dello Sport". Il favorito Gino Bartali ottiene il gran premio della montagna. La settimana prima il campionato di calcio registra il successo della squadra dell’Ambrosiana-Inter. Una calda giornata di festa riempie, in questo giorno, cinema, teatri, alimenta passeggiate, raduni familiari. Da 248 giorni, da quando il 1° settembre 1939 la Germania aveva invaso la Polonia, l’Italia vive una situazione di «non belligeranza», (ma di sostanziale «preguerra») in una altalena continua tra un conflitto sempre ritenuto imminente stando alle dichiarazioni sempre più bellicose di non pochi gerarchi, e una neutralità accettata quasi come una «camicia di forza» della quale solo il Duce, che godeva della fiducia dei cittadini, poteva porre rimedio nel migliore dei modi.La guerra nel resto d’Europa ha infatti non poche conseguenze: minore tenore di vita di moltissime famiglie, aumento di povertà, prodotti, lo zucchero, il caffè (con il ricorso al suo surrogato, il karkadè), il sapone razionati; compaiono le tessere alimentari con il conseguente espandersi del mercato nero; per tre giorni la settimana è proibita nelle macellerie la vendita della carne e scatta il divieto ai ristoranti di servirla ai clienti. Intatto si infittiscono le chiamate alle armi dei giovani di leva e degli appartenenti alle classi più mature, in numerosi Comuni si installano le sirene d’allarme, si tagliano i consumi di carburanti e si proibisce la circolazione nelle ore notturne; entra in vigore l’oscuramento all’esterno delle abitazioni, si moltiplicano i manifesti che invitano i cittadini a contribuire allo sforzo bellico che il Paese dovrà sostenere. Gli 8 milioni di baionette, tanto vantati dalla propaganda del regime, non ci sono. Mussolini sa, come risulta da un rapporto della Difesa, che «non c’è nessuna difesa antiaerea e che l’Italia potrà essere pronta solo dall’ottobre 1942». A parlare esplicitamente di pace in questi primi mesi del 1940 – e lo fa dall’inizio della guerra – è Pio XII. Chiede insistentemente speciali preghiere, promuove pellegrinaggi nelle diocesi (e molti di questi si svolgono proprio il 9 giugno) perché sia fermato «il terribile uragano della guerra» augurandosi che almeno l’Italia resti fuori da questo flagello. Scrive nel maggio 1940 al cardinale Maglione: «Tutti sanno che noi non abbiamo lasciato nulla di intentato, ma con tutti i mezzi – sia con pubblici documenti e discorsi sia con colloqui – abbiamo esortato al ristabilimento della pace basata sulla giustizia e perfezionata da una vicendevole carità». Ma le parole e i gesti del Papa, come il telegramma di solidarietà ai sovrani di Olanda, Belgio, Lussemburgo occupati dai tedeschi, trovano eco praticamente solo nella stampa cattolica. Incontrano l’ostilità del Duce attraverso la stampa. Addirittura nella Pasqua del 1940, l’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede presenta una nota di protesta che il cardinal Maglione rintuzza dichiarando: «Era prevedibile e naturalissimo questo intensissimo desiderio di pace (del Papa ndr) ora che tutti vedono crescere a dismisura il pericolo di guerra».Per la gran parte della popolazione la guerra appare ormai una necessità «non gradita». Non mancano le riserve le critiche di non pochi gerarchi (da Ciano a Bottai) e dello stesso Vittorio Emanuele III, sono senza esito gli incontri e lo scambio di lettere con Stati Uniti e Inghilterra. Ma Mussolini ha ormai deciso di mantenere fede al «patto d’acciaio» con la Germania di Hitler («Se l’Italia rimanesse fuori, tutto il mondo direbbe che siamo vili»). Alla fine di maggio, via radio, una nota ufficiosa proclama: «Sono vent’anni che la nostra generazione attende questo confronto. Le armi dell’Italia fascista sono numerose e potenti. Ci precede e ci guida l’inimitabile Duce di tante vittorie e di tanti eventi: Mussolini dal genio lampante e dall’intatta fortuna. Egli saprà cogliere il momento del tutto favorevole».Il 9 giugno mattina dai prefetti viene inviato ai podestà di tutta Italia un telegramma secco e conciso: «Prego disporre al pomeriggio di oggi che impianti altoparlanti per ascolto collettivo siano pronti in perfetta efficienza». In serata un secondo telegramma precisa: «Per la prossima grande adunata popolazione, non dovranno essere usate le sirene. Adoperate le campane, le trombe et tamburi». Il 10 mattina alle 7,11 una velina invita i direttori dei quotidiani a «tenersi pronti per una edizione straordinaria ma che non esca dalla tipografia prima delle 17». Verso le 12 arriva ai podestà l’ennesimo telegramma: «Oggi, lunedì ore 19, il Duce parlerà al popolo. Pregasi disporre che impianti ascolto collettivo radio diffusioni siano in funzione dalle 17 precise».La mobilitazione riempie le piazze. Alle 18 Mussolini annuncia da piazza Venezia la guerra. Il discorso, 700 parole, pur con molti applausi non è – e il giudizio è ampiamente condiviso – uno dei migliori del Duce. Al ministro degli Esteri, Ciano, che gli consegna la dichiarazione di guerra, l’ambasciatore inglese, Percy Loraine dice: «Voi credete a una guerra corta e facile. Sarà invece lunga e difficile». Durissimo il giudizio di Roosevelt: «In questo 10 giugno, la mano che stringeva il pugnale lo ha piantato nella schiena del vicino». Sul suo diario Ciano annota: «La notizia della guerra non sorprende nessuno e non desta eccessivo entusiasmo». L’entusiasmo invece trasuda nei titolo dei giornali italiani. Ma un settimanale cattolico preferisce dare ampio spazio nella prima pagina all’elenco dei promossi e confina il conflitto in una modesta colonnina. Otto giorni dopo il prefetto ordina la sospensione del giornale. Tornerà nelle edicole dopo sei mesi.