La fotografia è un mezzo espressivo che si è declinato, fin dalle sue origini, al femminile. Sarà anche la coincidenza della sua nascita con l’inizio del grande processo di emancipazione della donna, ma sono molte le fotografe che hanno contribuito a determinarne, e assai presto, fisionomia e linguaggi. Dora Maar, Lucia Moholy, Gerda Taro, Tina Modotti, Dorothea Lange, Marion Post Wolcott, Margaret Bourke-White. Solo un elenco sommario, a cui si deve aggiungere Berenice Abbott, alla quale a Milano la Galleria Carla Sozzani dedica una bella mostra.
Nata in Ohio nel 1898, dopo studi di giornalismo e di scultura, si trasferisce nei primi anni Venti a Parigi. Qui incontra Man Ray, di cui diventa assistente, che le insegna le tecniche della camera oscura. Nel 1926 apre con successo uno studio di fotografia, dove ritrae personalità come James Joyce, Marcel Duchamp, Jean Cocteau, André Gide, Tsuguharu Foujita (diversi gli esempi esposti). Tornata a New York nel 1929 si mette al lavoro su una città che cerca di fronteggiare la Grande Depressione trasformando in modo tumultuoso la propria pelle. Sono immagini con prospettive spesso ardite, in cui Abbott cerca di mettere a punto la specificità del linguaggio fotografico, prendendo una netta distanza dal pittoricismo del nume tutelare della fotografia americana, Alfred Stieglitz. Nel 1939 avvia il suo progetto più ambizioso: fotografare i fenomeni scientifici. Un lavoro che culmina alla fine degli anni ’50 in una collaborazione con il Mit di Boston, per il quale realizza una serie di illustrazioni sui principi della meccanica e della luce, che della mostra costituiscono le opere più interessanti.
In queste immagini Berenice Abbott sembra dialogare a distanza con le fotografie di Muybridge. Come nelle pionieristiche immagini del fotografo inglese, questi scatti riproducono il movimento di un oggetto nello spazio, non più però sciolti in sequenze di fotogrammi separati ma condensati attraverso esposizioni multiple in un unico foglio. Abbott conserva in queste immagini scientifiche gli spunti tecnici, e talvolta l’ironia, di Man Ray ma anche l’eredità del futurismo (come nel Movimento rotativo di una chiave inglese o in Cicloide, un lavoro che probabilmente sarebbe molto piaciuto a Balla). Il maestro degli anni parigini è poi esplicitamente omaggiato in Specchio parabolico, con la moltiplicazione dell’occhio femminile di Objet indestructible. Eppure c’è una decisa distanza tra gli scatti di Abbott e le sperimentazioni delle avanguardie europee. «La fotografia – scriveva nel 1951 – non è un dipinto, una poesia, una sinfonia, una danza. Non è solo una bella immagine, non un virtuosismo tecnico e nemmeno una semplice stampa di qualità. È o dovrebbe essere un documento significativo, una pungente dichiarazione, che può essere descritto con un termine molto semplice: selettività». La distanza sta tutta qui. I rayogrammes conservano marcato l’elemento pittorico, mentre la legge del caso surrealista esclude un’opera cosciente di selezione.
E di fatti lo sguardo di Berenice Abbott è sempre oggettivo, quasi asettico. Lo rivelano le immagini scattate dal 1929 nella serie Changing New York, concepita come una documentazione sulla metropoli in evoluzione. Della città l’obiettivo coglie soprattutto i rapporti di forze, le dinamiche che organizzano gli elementi in campo: dalla dimensione macroscopica dei building che nascono a ripetizione e si confrontano, giù fino alla disposizione dei cartelloni di un teatro e alle tariffe scritte sui tabelloni di ristoranti e botteghe. Anche la figura umana si inserisce in questa lettura: le persone appaiono come particelle organizzate in flussi. La Abbott sembra cercare le leggi che consentono a elementi in caos apparente di non collassare. Quelle che poi troverà con infinita maggiore pulizia ed esattezza (e perfino pathos) negli esperimenti scientifici.
Ecco allora che le forme disegnate da sfere ed oggetti nel loro movimento acquistano, per converso, una dimensione architettonica, come le grandi arcate di Esposizione multipla del rimbalzo di una palla da golf. Sono immagini di un’astrazione estremamente raffinata, basate sulla conoscenza dei processi fisici che coinvolgono lo spazio e il tempo. Attraverso la perfezione formale delle composizioni e l’accurato studio della luce, Abbott rivela l’armonia profonda delle leggi che governano la natura, la bellezza celata dietro le cose.
Milano, Galleria Carla Sozzani - Berenice Abbott - Fino al 6 gennaio