Nel saggio del 1976
Il decennio dell’Io, Tom Wolfe osserva che dagli anni ’50 in poi l’uomo occidentale si è trovato a disposizione una quantità di tempo libero, di denaro e di possibilità come mai nel passato e questo ha generato quello scoppio dell’ipertrofia dell’Io di cui ancora oggi si vedono le conseguenze nefaste. Il fenomeno di cui parla Wolfe fa riferimento di sicuro alla superbia, il primo dei sette vizi capitali, ma anche all’ultimo ad esso strettamente collegato, cioè l’accidia. È l’accidia a chiudere il cerchio inaugurato con la superbia, essa è davvero il vizio ultimo, nel senso di più recente, più “moderno”, più tardo ad emergere nella storia dell’umanità: se il primo vizioso nella vicenda biblica è il superbo Lucifero, l’ultimo che Gesù incontra è Erode, il re corrotto, opulento e annoiato, che gli chiede capricciosamente di esibirsi in miracoli (e sarà l’unico uomo a cui Cristo non rivolgerà nemmeno una parola).Vizio difficile da descrivere, l’accidia viene spesso confusa con la pigrizia, che è solo una delle conseguenze di quel “male di vivere” che attanaglia l’accidioso, così come lo è la “tristizia” che apparentemente ne è l’opposto: un senso di vuoto proprio dell’uomo travolto dalla frenesia del fare, che si muove e si agita di continuo per l’orrore di fermarsi e stare senza un’azione da dover compiere. Pigrizia e tristizia rendono il quadro dell’accidia più chiaro; un “dis-gusto” della vita, una strisciante disperazione che porta a uno svuotamento: non dovuto a una ferita dall’esterno, ma come da un’emorragia interna di cui fanno le spese l’energia vitale, la libera fantasia, l’audacia del desiderio, il senso della meraviglia e della gratitudine. Al contrario degli altri vizi non basta mantenersi in equilibrio contro l’accidia, che è già “equilibrata”: tentazione “meridiana”, è stata definita, poiché caratterizza la metà della giornata, ma anche il mezzogiorno della vita (viene in mente la poetica di Montale, piena di “meriggi” e di
tedium vitae); occorre invece recuperare una sana tensione, uno spirito lieto grazie a uno sguardo non più svuotato dalla mancanza di desiderio ma acceso dalla gratitudine per la gioia continuamente ricevuta.