La Galleria dei Re inaugurata ieri a Torino alla presenza del presidente della Repubblica Mattarella - Mauro Ujetto/Museo Egizio
Dall’oscurità all’esplosione della luce. Non è solo ciò che accadde con la creazione del mondo secondo la mitologia egizia, ma è il sunto della radicale trasformazione del “nuovo” Museo Egizio di Torino, il più antico al mondo con i suoi 200 anni di storia. Dall’oscurità della Galleria dei Re così come eravamo abituati a vederla nell’allestimento quasi hollywoodiano di Dante Ferretti del 2006, con le statue dei faraoni immerse in un buio da oltretomba e rimbalzate dagli specchi delle pareti nere, si è passati alla luce fredda che da ieri – giorno di inaugurazione del nuovo allestimento – riporta i faraoni e gli dèi al loro contesto naturale, come apparivano sotto il sole dell’antico Egitto. Una scelta coraggiosa e controcorrente, che rischia di entrare nelle corde degli egittologi più che del grande pubblico, attratto più facilmente dalle atmosfere cinematografiche che dalla rigorosa ricostruzione filologica attuale. Il direttore Christian Greco e la presidente Evelina Christillin, con l’intero staff di egittologi e curatori, hanno condotto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il ministro della Cultura Alessandro Giuli lungo la Galleria dei Re e il Tempio di Ellesiya, riaperti al pubblico dopo otto mesi di cantieri. La novità è proprio la luce in cui le statue sono ora immerse, «perché la nostra intenzione è che i visitatori abbiano la percezione reale di come gli antichi le vedevano. Non nascoste nel buio, ma all’aria aperta», spiega Greco. E non è un caso, allora, se a questo riallestimento non hanno lavorato scenografi (come il premio Oscar Ferretti) ma un team di egittologi, attenti alla ricostruzione archeologica più che agli effetti speciali. Così la monumentale statua di Ramses II, che fino ad oggi ci guardava dall’alto del piedestallo aggiunto nel 1800, è stata riposizionata a livello del pavimento e ci sorride a tu per tu, illuminata dal timido sole torinese che entra dai finestroni prima murati. Lo stesso accade al grande Tutmosis III, alle sfingi, alle decine di statue raffiguranti Sekhmet con testa di leone, dea della violenza ma anche della protezione del faraone. Tutte “ribassate” al nostro livello di umani: «Per noi egittologi è la prima volta che questi oggetti sono ricontestualizzati in modo scientifico – spiega uno dei curatori, il canadese Cédric Gobeil, da dieci anni in forze al museo torinese –, prima era una mise en scène, una messa in scena molto amata dal pubblico, la gente si faceva i selfie davanti ai faraoni e così entrava anche lei nella scena, oggi protagonista è solo il panorama originale». Indubbiamente la luce permette di assaporare particolari prima invisibili, anche perché ora è possibile girare intorno alle statue: «Ad esempio sulla schiena di Ramses II adesso si vede l’iscrizione – dice Chtistian Greco –. Aver fatto scendere dal piedistallo statue tra le più belle al mondo ha fatto sì che oggi come nell’antichità tornino a guardarci negli occhi, pur senza perdere la loro ieraticità. Inoltre le tante statue di Sekhmet sono state riposizionate in due file che si fronteggiano, così come nel 1818 le trovò Bernardino Drovetti, console di Napoleone, lungo le vie processionali che conducevano al tempio di Karnak». Ciò che colpisce di più è la metamorfosi dalle pareti nere di Ferretti a quelle attuali in alluminio riflettente, non lucido e non del tutto opaco, sul quale le figure (le nostre e quelle dei faraoni) si rispecchiano sfocate. «L’obiettivo è ricreare l’atmosfera eterea in cui queste statue per millenni hanno avuto il loro ruolo – aggiunge Greco –. Ci piace molto il contrasto tra l’antico e la modernità, tra la pietra e il metallo, materiali così diversi da non entrare in competizione, l’alluminio non toglie più la scena alla statua. Il metallo rispecchia ma non proprio, l’immagine non è nitida, si intuisce solo qualcosa: questo ci ricorda che del passato c’è tanto che non conosciamo e solo la ricerca, di cui il museo è la vera casa, può sondarlo». Alla base della “rivoluzione” c’è allora una concezione molto moderna di museo non come raccolta di reperti ma come luogo di ricerca e formazione. «Il museo è di tutti – è il mantra di Greco –, appartiene alla gente, l’ho detto anche oggi a Mattarella, che era entusiasta e ha definito “magnifico” il nuovo allestimento. Dai finestroni che abbiamo riaperto, le persone che passeranno sulla strada vedranno i volti dei faraoni, in un interscambio dentro-fuori che rende il museo trasparente e lo connette al tessuto sociale in cui è inserito. E una volta che avremo finito la copertura ci saranno anche i raggi del sole che colpiranno le statue». Se il museo è di tutti, lo è ancora di più (e letteralmente) il Tempio rupestre di Ellesiya, anch’esso riallestito in una nuova veste che unisce l’intimità della cappella e la tecnologia digitale in 3D: infatti fu donato dal governo egiziano al popolo italiano nel 1966, quando il nostro Paese fu fondamentale nel salvataggio dei famosi Tempi di Abu Simbel, che altrimenti sarebbero stati sommersi dalle acque nella costruzione della diga di Asswan. Il tempio fu trasportato nel 1970 all’interno del museo torinese e oggi torna ad essere un dono alla popolazione, d’ora in poi accessibile gratuitamente attraverso un ingresso autonomo. Tuttora vi si respira l’odore originale della cappella ctonia, ma il gioco di proiezioni ideato da Robin Studio (lo stesso che ha creato tutti i video in 3D del museo, comprese le Tac che rivelano il contenuto delle mummie di Kha e Merit) permette una visita immersiva di alta suggestione. Il riallestimento del Museo Egizio, possibile grazie all’ingentissimo contributo di vari sponsor (Intesa Sanpaolo, Ferrovie dello Stato, Alpitour, Fondazione CRT, per citare i principali) è opera dello Studio Oma di Rotterdam, tradizionalmente attento alla valorizzazione delle architetture, dunque anche alle volte seicentesche dell’ex Collegio dei Nobili risalente al XVII, prima nascoste nella “scatola nera” della scenografia di Ferretti. «I più sorpresi dalla cura con cui custodiamo i reperti della loro civiltà sono stati il direttore del Museo Egizio del Cairo Ali Abdel Halim e il Segretario generale delle Antichità Mohamed Khalid venuti apposta dall’Egitto», ha concluso la presidente Christillin, «e se lo dicono i diretti discendenti del popolo che ha creato tutto questo...».