«Così non salviamo il governo, così lo condanniamo a morte». Il tono della voce di Angelino Alfano è teso, il suo volto stanco. «Non è possibile che Pd e Pdl sostengano insieme il governo e poi loro, i Democratici, si preparino a sbattere fuori dal Parlamento il nostro leader. Enrico sai bene che non è possibile: se il Pd vota la decadenza, io non posso restare a guardare». Non serve spiegare. La tensione è altissima e non bastano anni e anni di amicizia per allentarla. Enrico Letta ascolta silenzioso. Lo sfogo di Alfano a tratti si trasforma in un vero atto d’accusa. Non c’è mediazione, c’è solo scontro. Dario Franceschini (il solo a partecipare al vertice a Palazzo Chigi) per un attimo sembra quasi tentato di allontanarsi. Alfano lo invita a restare chiamando anche lui per nome. «Dario tocca anche a te fare uno sforzo. Tocca a te e a Enrico spiegare al Pd come stanno le cose. Epifani non può pensare di trasformare la giunta per le elezioni in un plotone d’esecuzione per giustiziare Berlusconi e poi chiedere al Pdl di continuare ad appoggiare il governo». Letta fatica a trattenersi. Si alza in piedi nervosamente. Alza anche lui la voce. «Non è il governo la sede per questo confronto. Il Pd ha un segretario...». Alfano insiste: «Tocca anche a te spiegare al Pd che ci aspettiamo un esame sereno del caso. La giunta deve riflettere sulle carte con serenità, con pacatezza. Non possiamo accettare un dibattito viziato dall’odio verso il nostro leader, non possiamo accettare un giudizio già scritto». Ora è Letta ad alzare la voce: «Non accetto ricatti. Nemmeno da te. Te lo ripeto il problema non è del governo, tocca al Senato fare sintesi».
Per quasi due ore si cerca una soluzione che non c’è. E quasi certamente non ci sarà. A notte Alfano torna a sentirsi con Berlusconi. È sincero con il Cavaliere. Ammette le difficoltà e le distanze. «Siamo lontani, siamo terribilmente lontani, ma sia io sia te sappiamo che il governo è un bene prezioso per il Paese», ripete il vicepremier a voce bassa. Berlusconi ascolta, Alfano insiste: «Sei stato tu il primo a credere e a puntare su questo governo. A scommettere sulle larghe intese. Pensavi che servivano al Paese...». Berlusconi chiosa amaro: «Angelino, io volevo una stagione di pacificazione, loro vogliono la mia morte politica».Non c’è una strategia. Non c’è una decisione. Il Cavaliere nei momenti in cui la lucidità prevale sull’emotività analizza la questione. Non vede spazi di manovra in giunta. Semmai è il voto segreto al Senato a lasciare qualche speranza. Sono ore complicate, ore senza soluzione. Berlusconi tiene duro: «Non resterò a guardare mentre mi puntano contro i fucili». Vuole (senza crederci) l’agibilità politica, vuole un atteggiamento «costruttivo» del Pd, vuole restare in campo. C’è un ultimatum che scade a fine mese. Un ultimatum che mette a rischio il governo. Il Pdl tornerà a riunirsi ad Arcore con Berlusconi domani e ancora una volta sarà un vertice senza svolte. Insomma è una partita di poker dagli esiti imprevedibili. A tratti il governo sembra a un passo dalla fine, a tratti sembra riprendere fiato. A Palazzo Chigi per un’ora Alfano e Letta si scontrano con durezza, poi quando da Berlusconi si passa a ragionare di cose concrete il clima cambia. Su Imu e Iva c’è una soluzione possibile. Il premier a notte ragiona proprio su questo: «Sul terreno delle cose concrete si riesce sempre a trovare un’intesa». Alla stessa ora anche Alfano si lascia scappare parole di speranza: «Non voglio far cadere il governo, voglio solo che il Pd superi i pregiudizi verso Berlusconi».