Giuseppe De Rita, nato a Roma nel 1932, è presidente del Censis, il più famoso istituto di ricerca socio-economica, del quale è stato tra i fondatori nel 1964 e poi segretario generale dal 1974. È stato presidente del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) dal 1989 al 2000. Il Censis svolge una costante e articolata attività di ricerca, consulenza e assistenza tecnica in campo socio-economico. In particolare predispone l’annuale "Rapporto sulla situazione sociale del Paese", giunto alla 46ma edizione.
«Io spero molto che queste elezioni rilancino il desiderio e il vigore», ma «collettivi», non «solo emotivi», che «costruiscano» e non «si limitino all’urlo "dimettetevi tutti, andate a lavorare"». Giuseppe De Rita, presidente del Censis, parla lentamente, tra una tirata di "toscano" e una lunga pausa. Guarda con attenzione, da studioso, le elezioni di domani. Evitando accuratamente di entrare nella mischia. «Starò a casa. Ho invitato a pranzo alcuni amici. Niente politici. Niente tv. Non ci sono mai andato e non ci andrò, certo, stavolta». Ma non può evitare di analizzare campagna elettorale e prospettive.Professore, cosa pensa e cosa spera che succederà al Paese martedì? Non parliamo, ovviamente, di risultati elettorali.La classe dirigente spera che ci sia un ritorno di razionalità e che quindi ci sia un compattamento delle forze razionali, nel voto e forse anche nel dopo voto, nelle alleanze, pensando, con uno schema che non è di oggi, che comunque le estreme vanno tenute da parte. È sempre stato così. Per vivere e per governare razionalmente bisogna tenere lontano le estreme. E quindi sono venuti governi di compromesso, di coalizione nazionale, alleanze di vario tipo. Ho la sensazione che quel gioco sia usurato, che la gente non creda più nella razionalità politica o almeno in coloro che la interpretano.Perché?Perché c’è la sensazione che lì ci sia il "professionalismo" politico. E questo anche secondo me ha un po’ stancato, non c’è più fiducia.È un bene o un male per il Paese e per le forze politiche?Dipende da che cosa salta fuori. Io spero molto che queste elezioni rilancino il desiderio e il vigore.In che senso?Qui non c’è più nessun vero desiderio. La paura della crisi, la stanchezza, il disprezzo per la "casta" fanno sì che ci siano più desideri distruttivi che di futuro. Poco sogno. E una società senza desideri diventa triste oppure resta prigioniera di chi come Grillo illustra sì un desiderio ma, appunto, distruttivo: "Che vadano a casa, che si arrendano!".Ma se questo distrugge quale è il desiderio "buono"?Questo è un Paese che ha lasciato il desiderio in mano ai singoli: mi arricchisco, mi faccio la macchina, mi compro la tv, la seconda casa. Ma se tu sei senza desideri, perché ormai il desiderio individuale non tira più, perché ci accontentiamo di quello che abbiamo, che non ci mettano troppe tasse, che i figli non diventino precari, allora resta solo quello distruttivo. Il desiderio del "gol" allo stadio diventa l’urlo "andate a lavorare". Il "gol" è emozione e anche "dimettetevi tutti, andate tutti a casa" è emozione. Quello che è importante non è il gol ma l’emozione che si tira fuori...Che ha un respiro molto corto.Certo, e questo riguarda anche il secondo difetto, che è la mancanza di vigore. Tutta la vicenda dell’ultimo anno è stata impregnata anche in Italia, soprattutto in Italia, dal rigore e invece bisognava suscitare più vigore collettivo che sostituisse il vigore dei desideri individuali. Il rigore frega il vigore. Ciò che di Grillo colpisce le masse è che è vigoroso. Ha perfino attraversato lo stretto di Messina a nuoto...Come Mao sul Fiume giallo o Mussolini alla trebbiatura...Il successo di Mussolini era anche il vigore fisico, mentre tutta la politica italiana è segnata dalla mancanza di vigore. E allora se io dovessi dire come guarderò queste elezioni, le dico che annuserò se qualcosa di vigore e desiderio comincia ad avere effetto. Anche nelle forme più stravaganti. Se, ad esempio, diminuisce la propensione al rigore significa che c’è bisogno di altre adrenaline.Vigore per fare cosa? E cosa desiderare? Non c’è il rischio di qualcosa solo esteriore?Per me vuol dire fare comunità, creare rapporti con gli altri, rilanciare le forme associative classiche. Il destino di questo Paese, quello visto dal basso, è un destino comunitario e lì vanno messi vigore e desiderio. Che, lo ripeto, devono crescere dal basso. Quando si dice che ci vuole "qualità della vita" non è una cosa da "anime belle", è il problema di gestire la comunità in maniera tale che ci si "viva bene", e questo vale per il lindo borgo di Bevagna come per la Napoli dei rifiuti. E qui che, alla fine, i desideri escono.Lo spauracchio della Grecia lo si evita facendo comunità? Ci si salva davvero solo tutti insieme?C’è un livello del "salvarsi insieme" rispetto allo spread ed è da "grande coalizione". Non ci sono alternative. Non puoi fare politiche europee, se non hai una copertura vera dietro alle spalle. Ed è il vivere e salvarsi insieme ai livelli alti, che sono quelli finanziari dove un minimo di tecnicalità serve. Ma non basta il rigore perché poi ti ritrovi una realtà sempre più impoverita. Rigore e desideri fanno parte di una logica di vita quotidiana, con gli altri, in comunità, di risistemazione dal basso dei nostri problemi.Quali problemi?Il primo è l’assetto territoriale. Cosa è oggi il territorio italiano? Certamente le grandi città, ma anche i borghi, i vecchi distretti industriali da risistemare. E non penso solo alle grandi infrastrutture. Serve una cultura del territorio puntata sui soggetti e sui beni che li caratterizzano non su grandi opere calate dall’alto. Poi c’è la revisione del welfare, perché la comunità ha bisogno che lo stato sociale funzioni. E se si tagliano e basta pensioni, sanità e assistenza... Bisogna rifare il welfare non solo come spesa dall’alto per insegnanti e medici, ma in un modo diverso, mobilitando e siostenendo iniziative ed energie dal basso. E riparto dal basso anche per il terzo problema: non c’è solo da tener conto dello spread, della tal direttiva europea, dell’asse franco-tedesco. Partendo dal basso c’è, ad esempio, da valorizzare la catena delle filiere di impresa, che sta vincendo nell’export: dagli occhiali alle scarpe. Qui, i piccoli possono entrare ancora. Questo è partecipare dal basso alla verticalità del mondo moderno.Alla luce della campagna elettorale tutto questo è possibile, è credibile o è solo un puro sogno?Stiamo preparando una sorta di prospetto, una "lenzuolata" su quali domande politiche vengono dal basso. Perché sono emerse solo quelle dall’alto e invece ce ne sono di altre. Ma si sono consumate solo nel portare proposte ai vari leader o invitarli a qualche convention. Sono, invece, una richiesta di attenzione. Ora le metteremo insieme per ragionarci.Tutti ammettono che la prossima dovrà essere la stagione delle riforme.Non vedo una stagione di «grandi» riforme. Abbiamo delle decisioni prese nel passato, come la riscrittura del Titolo V della Costituzione, la riforma delle Province, la Cassa depositi e prestiti... Non innovazioni secondarie, e alle quali dobbiamo rimettere mano. Abbiamo un residuo di disordine della Seconda Repubblica che va risistemato. Ma, insisto, partendo dal basso. Bisogna recuperare lo Stato delle autonomie. Invece aver fatto il decentramento partendo dall’alto, dalle Regioni, ha fatto sì che oggi non ci sia vero decentramento. Non si tratta di fare una battaglia tra stagione delle autonomie e regionalismo federale, basterebbe sistemare un po’ di cose.<+nero>Separatismo, rivendicazione del 75% delle tasse da tenere "in casa". È campagna elettorale o questa linea va crescendo nel Paese?<+tondo>Va crescendo. E non ci dobbiamo scandalizzare di certo linguaggio leghista. La verità è che dietro c’è un’ipotesi di responsabilizzazione sul territorio che andrebbe bene anche al Sud. Non basta dire che è egoismo. Tutti, dal presidente di un municipio a Roma a quello di una provincia siciliana devono avere lo stesso spirito di responsabilità. Se no che fai? Resti uno Stato che non regge più nella sua fase centrale e ancor meno in quella redistributiva...Questo non cozza con la solidarietà?La responsabilità locale comunitaria permette la solidarietà. E la gente accetterebbe anche maggiori restrizioni sulla spesa pubblica se gestite in proprio e non redistribuite.E tra «nuova Tangentopoli», festini e sprechi come la mettiamo?Quando si arriva all’ "arraffa arraffa" del Consiglio regionale del Lazio significa che non c’è più controllo reale, né un mandato per cui lo Stato dà dei soldi alle Regioni per fare determinate cose, né responsabilizzazione dal basso. E allora o si ricomincia verticalizzando e rimettendo tutto in mano allo Stato, ma non funzionerà. Meglio alleggerire saggiamente la macchina, metterla a regime e ridare vigore (collettivo e istituzionale)al motore.