Molti anni fa l’economista e premio Nobel Simon Kuznets osservò come ci fossero quattro tipi di Paesi: sviluppati, sottosviluppati, Argentina e Giappone. L’Argentina rappresentava un caso perché, all’epoca della Prima Guerra mondiale, era una delle Nazioni più ricche al mondo. Iniziò poi un impoverimento costante che, negli anni Settanta e Ottanta, si trasformò in vero e proprio declino. Il Giappone, all’opposto, uscì rapidamente da un isolamento secolare trasformando un’organizzazione sociale di stampo feudale per costruire nell’arco di una generazione, sulle macerie della Seconda Guerra mondiale, una potenza globale in grado di sfidare quella statunitense. A differenza dell’Argentina, il Giappone rappresenta ancora oggi un’anomalia per alcune caratteristiche socio-economiche singolari: una popolazione fra le più vecchie al mondo, l’intreccio per molti aspetti irrisolto di tradizione e modernità, un debito pubblico enorme, pari al 236% del Pil, e l’ultimo ventennio di "crescita zero".Tra un paio di decenni un quarto della popolazione giapponese avrà un’età superiore ai 65 anni. Aumenteranno inesorabilmente le spese sanitarie e previdenziali e diminuirà al contempo la forza lavoro. Il ministro dell’Economia giapponese, Akira Amari, ha proposto di recente una terapia choc per aggredire il problema: creare una società nella quale le persone rimangono attive per tutta la vita. Costruire un mercato del lavoro senza vie d’uscita in cui l’età della pensione è cancellata. Operazione possibile, secondo Amari, coniugando ingegneria sociale e ingegneria genetica. Riformando cioè il sistema previdenziale e sfruttando appieno, parole del ministro giapponese, le cellule staminali pluripotenti indotte (la più promettente "via etica" in questo delicato settore della ricerca) per creare cellule sane da sostituire a quelle malate. Se non altro, il merito di una "soluzione" che prefigura un futuro prossimo così disumanizzato (lavoro perpetuo, con relativi annessi e connessi sull’ "aggiornamento fisico" del lavoratore) è quello di ricondurre la riflessione biopolitica all’alveo originario. All’accezione di Michel Foucault che, con il termine "biopolitica", delimitava proprio il terreno in cui agiscono le pratiche con le quali la rete di poteri gestisce le discipline del corpo e la regolazione delle popolazioni. La biopolitica, cioè, non ha a che fare solo ed esclusivamente con il "fine" e l’"inizio" della vita, ma soprattutto con il "durante". Dove si realizza appieno, nell’era capitalistica, l’incontro tra potere e sfera della vita. Un "durante" che si sviluppa, su scala sociale, anche attraverso i modelli di Welfare State, di Benessere comunitario.«Questa soluzione potrebbe essere esportata in tutto il mondo», ha annunciato il ministro giapponese nel video-messaggio proiettato qualche settimana fa durante un convegno, guarda caso, a Roma. Anche in Italia, dunque, Paese che, sul piano demografico e della finanza pubblica, ha molte somiglianze con il Sol Levante. E che nel secondo Dopoguerra ha edificato una fra le più belle architetture sociali del Novecento. Ma il Welfare italiano, oggi, ha bisogno di accelerare il percorso di trasformazione. È una delle urgenze del Paese. Che deve saper integrare un intervento pubblico oramai asfittico – per il quale la spesa extra-pensionistica è di anno in anno più risicata – alla ricchezza di un privato-sociale che è riuscito a crescere in termini di organizzazioni e occupazione anche durante la recessione. La sfida "biopolitica" si consuma pertanto nella capacità di armonizzare gli attori e i finanziamenti per ricalibrare il sistema di Stato sociale sempre più in dimensione sussidiaria, laddove la partecipazione del singolo e soprattutto il contributo del "volontario" sono elementi essenziali e premianti. Una sfida per certi versi antropologica che chiama anzitutto la Politica alle sue responsabilità in termini di capacità e visione. Altrimenti, a vincere su questo terreno, saranno le forze impersonali dell’Impero post-capitalistico, oltre gli Stati, oltre la Politica: i poteri tecno-finanziari che guardano all’uomo sempre come a un mezzo e mai come a un fine. E progettano di rubargli pure l’età della pensione.