L'arcivescovo di Algeri, il francese Jean-Paul Vesco, che sarà creato cardinale il 7 dicembre - Avvenire
Dentro il cassetto della scrivania nel suo studio di avvocato a Parigi, teneva la copia di una preghiera. «E ogni tanto la tiravo fuori per leggerla», racconta Jean-Paul Vesco. Era la “preghiera dell’abbandono” di Charles de Foucauld. «Padre mio, fa’ di me quello che vuoi. Qualsiasi cosa Tu faccia di me io ti ringrazio», scriveva il “piccolo fratello di tutti” che aveva lasciato la Francia per “vivere per Dio” nel deserto africano. Un po’ come Vesco. Francese che dagli uffici lungo la Senna si è ritrovato in Algeria. Prima da domenicano. Poi da vescovo. Adesso anche da cardinale. Uno dei ventuno nuovi cardinali che saranno creati da papa Francesco il 7 dicembre.
I bambini celebrano la festa dell'indipendenza in Algeria - Ansa
Sessantadue anni, originario di Lione, è arcivescovo di Algeri dalla fine del 2021 dopo aver guidato la diocesi di Orano, quella in cui era stato vescovo Pierre Claverie, domenicano come lui. Assassinato nel 1996. E beato dal 2018. «A lui devo la mia presenza in Algeria», dice Vesco. Porpora in un Paese dove l’islam è religione di Stato e dove la sfida è quella di «costruire la fraternità: cristiani e musulmani insieme», spiega ad “Avvenire”. Come richiama la basilica di Nostra Signora d’Africa che dalla cima del promontorio a nord di Algeri abbraccia il mar Mediterraneo e custodisce un’invocazione alla Madonna che è come un ponte oltre le differenze: “Nostra Signora d’Africa, prega per noi e per i musulmani”. «Ogni anno i visitatori sono 350mila e il 98% è musulmano. Consideriamola pure una chiesa dell’incontro. Condividendo lo spazio sacro, teniamo aperta la porta a quella parte del mistero che è vicinanza all’altro distante da noi e a un Dio che si mostra nel volto del prossimo, chiunque esso sia», racconta Vesco. Una berretta della “fratellanza universale”. E “aperturista” sotto molteplici punti di vista: compreso il diaconato femminile o i separati risposati. Ma anche a sorpresa. «Non me lo sarei mai immaginato. Alla gente della diocesi, che pensava me ne andassi dopo l’annuncio di papa Francesco all’Angelus, ho detto che il cardinalato non è un riconoscimento alla mia persona ma alla nostra Chiesa».
Ha dedicato la sua ultima Lettera pastorale alla fraternità. È la missione della Chiesa in Nord Africa?
«La fraternità è lo stile con cui qui testimoniamo il Vangelo. Non si tratta di ridurre tutto al dialogo. È necessario, invece, vivere insieme, lavorare insieme, sentirsi sorelle e fratelli che condividono la stessa terra. Ciò che ci unisce è infinitamente più importante di ciò che ci divide. Ovviamente non nascondiamo il nostro essere cristiani: siamo qui per questo. Ma serve un ribaltamento di prospettiva. Non dobbiamo affermare il nostro Dio, ma mostrare con la vita il Dio in cui crediamo».
I cattolici sono una piccola minoranza: 10mila su 43 milioni di abitanti. Come si vive in una nazione che è in tutto e per tutto islamica?
«Lo Stato pensa se stesso e si organizza con parametri musulmani. La nostra Chiesa è per lo più formata da stranieri, di almeno quaranta nazionalità. Per i cristiani non autoctoni la vita di fede non è problematica. La questione si fa ben più complessa per i nativi locali che sono un numero molto ridotto. Le conversioni sono difficili da accettare: sia a livello sociale, sia da parte dell’islam stesso. Così, ad esempio, sorgono problemi all’interno delle famiglie».
Ad Algeri la basilica di Nostra Signora dell'Africa - Wikipedia
Lei ripete che la convivenza non è un’utopia. Quale lezione di pace dal Nord Africa?
«Non sono le differenze religiose che alimentano le tensioni. Anzi, possono favorire le soluzioni. Non siamo chiamati a convertirci a vicenda ma a creare insieme un clima di fiducia reciproca. È il grande messaggio che arriva dal Documento di Abu Dhabi che reputo uno dei più belli del pontificato e che sta orientando sia la mia vita personale sia il mio ministero episcopale. Quando nel 2019 papa Francesco e il grande iman di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, hanno firmato il testo l’uno accanto all’altro, non erano due leader religiosi rivali, ma uniti dallo stesso sguardo sulla realtà e dall’impegno a rendere migliore il mondo».
Perché la scelta di indossare l’abito domenicano dopo essere stato avvocato?
«Avevo 33 anni quando sono entrato nell’Ordine. E per sette ero stato un legale. Eppure posso dire di aver avvertito la vocazione fin da ragazzo, a cui però ho risposto tardivamente. Sono stato impegnato anche sul versante politico e sindacale. Ma a un tratto mi sono reso conto che mancava qualcosa. Due figure forti mi sono state di riferimento: Pierre Claverie e Charles de Foucauld».
L'arcivescovo di Algeri, il francese Jean-Paul Vesco, che sarà creato cardinale il 7 dicembre - Avvenire
Entrambi hanno declinato il Vangelo nel Maghreb. Partiamo da Pierre Claverie…
«È stato assassinato durante il mio primo anno di noviziato. Da subito ho percepito una singolare attrazione spirituale verso di lui. Poi, a distanza di alcuni anni, quando la Provincia domenicana ha voluto riaprire una nuova comunità in Algeria, ha inviato me e un confratello. E nel 2012 la Provvidenza ha voluto che diventassi vescovo di Orano, la diocesi di Claverie. Lui ripeteva: “Nessuno possiede la verità. Ognuno la ricerca e io ho bisogno della verità degli altri”. È la mia bussola nel rapporto con il mondo musulmano. E la mia fede si è rafforzata vivendo in un Paese islamico. Infatti la presenza di altre religioni ti allarga gli orizzonti perché ti rendi conto che Dio è ben più grande dei nostri incasellamenti. Inoltre è dall’assolutizzazione della propria visione di Dio che scaturiscono i fondamentalismi».
E Charles de Foucauld?
«Mi ha sempre attratto la sua radicalità unita alla povertà. Un folle di Dio. Quando, dopo il percorso di rinascita della presenza domenicana in Algeria, sono stato costretto a lasciare il Paese perché ero stato eletto provinciale di Francia, pensavo che non avrei più toccato con mano l’esperienza di Charles de Foucauld. Invece un giorno, a Parigi, sono entrato nella chiesa di Saint-Augustin dove lui si era convertito. E ho ritrovato la sua “preghiera dell’abbandono” che ho capito di stare vivendo dopo aver rinunciato all’Algeria. Finché non è arrivata la nomina di Benedetto XVI a vescovo di Orano».
E a Orano ha vissuto la beatificazione dei diciannove martiri d’Algeria. Sacerdoti, religiose e religiosi (fra cui i sette trappisti di Tibhirine e il vescovo Claverie) uccisi nel “decennio nero” del terrorismo islamico che dal 1991 al 2002 ha fatto 150mila vittime.
«Tibhirine è oggi un luogo che attrae migliaia di persone, compresi i musulmani. La beatificazione è stata un invito a “continuare a operare per il dialogo, la concordia e l’amicizia”, aveva scritto papa Francesco. Tutti i martiri avevano deciso di restare nonostante i pericoli negli anni tragici della crisi algerina durante i quali sono stati uccisi anche 119 imam. Desideravano stare accanto alla gente come segno di speranza. Perché la fede cristiana è un messaggio di speranza. La loro è una testimonianza di fedeltà al Vangelo che si è tradotta in vicinanza al popolo».
A Orano la beatificazione dei diciannove martiri d’Algeria (fra cui i sette trappisti di Tibhirine e il vescovo Claverie) uccisi nel “decennio nero” del terrorismo islamico che dal 1991 al 2002 ha fatto 150mila vittime - Ansa
Come si vedono dall’Algeria i viaggi della speranza dei migranti che lasciano l’Africa?
«L’Algeria è terra di partenze e arrivi. Abbiamo giovani algerini che se ne vanno in Europa o Canada; e migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana che giungono qui. Il Paese reprime in maniera dura l’immigrazione. Eppure non si tratta di numeri: sono donne e uomini che rischiano la vita in cerca di un futuro. Sulle rotte migratorie, sia nel Mediterraneo, sia nei deserti, dove i morti si moltiplicano, sta naufragando la civiltà. E, come ripete il Papa, l’accoglienza è imperativo etico. Reputo drammatico che una persona debba lasciare la sua terra, spesso ricca di risorse come in Africa, per realizzare i suoi sogni».
C’è bisogno di denunciare azioni predatorie nel continente?
«Non ci può essere sviluppo senza giustizia. Quando non si tiene conto della giustizia, si avrà l’arricchimento di pochi a scapito di molti. Ed è quanto sta succedendo ancora oggi. I Paesi che per secoli hanno colonizzato l’Africa hanno una responsabilità enorme, ma vedo nazioni del continente che stanno cadendo nelle mani di altri conquistatori».
Lei è favorevole al diaconato femminile. Perché?
«Le donne sono l’anima della maggior parte di proposte ecclesiali. Però nella Chiesa si parla di donne solo in termini di complementarità rispetto agli uomini. Invece occorre pensare nell’ottica dell’alterità. Allora mi domando: perché privarci della loro sensibilità spirituale nel commento alla Parola di Dio, a cominciare dalle Messe domenicali? Trovo difficile vedere qualcosa che si frapponga a tale prospettiva che può comprendere anche un ministero ordinato. Se vogliamo essere Chiesa cattolica, cioè universale, le donne devono avere spazio. Papa Francesco sta scuotendo la comunità ecclesiale per superare il maschilismo. La Chiesa cammina. E alcune cose cambieranno».