Siamo tutti d’accordo: se una cosa è utile la si usa, fin quando non serve più. E allora è pronta per essere accantonata, o più semplicemente eliminata. Ma se questa "cosa utile" è la vita umana, siamo ancora tutti d’accordo? E se anche soltanto qualcuno eccepisce che bisogna usarla fin tanto che funziona per poi consentire a chiunque di sopprimerla quando è malata, sghemba o non più efficiente, è giusto lasciarlo libero di agire e predicare indisturbato? Ci pare sia necessario ristabilire anzitutto un po’ di ordine razionale quando si parla del bene primario senza il quale non può esistere qualunque altro diritto. Perché l’idea che la vita debba mostrarsi anzitutto utile (a soddisfare un bisogno, realizzare un progetto, conseguire un risultato, corrispondere a standard di prestanza e produttività...) ha finito col generare nella cultura che tutti respiriamo la progressiva accettazione dell’ipotesi sinora inaudita di una vita "rinunciabile", di seconda categoria, subalterna ad altre esigenze, se non di scarto. Non più un principio primo, un caposaldo indiscutibile, tanto che attaccarlo equivale a commettere un reato, ma una variabile condizionata al verificarsi e al permanere di alcuni criteri, per loro stessa natura mutevoli. E se anche uno solo di questi viene meno, è lecito (o addirittura opportuno) mettere la vita tra gli oggetti eliminabili, come se vivere o morire, salvare o sopprimere, prodigarsi per dare speranza o per uccidere fosse del tutto equivalente. Col morire (o far morire) insensibilmente trasformato in un diritto meritevole di tutela quanto il vivere: solo una questione di scelta.Inevitabile pensarlo, quando nella stessa giornata – ieri – càpita di veder debuttare due video di segno opposto, entrambi espressione di una campagna d’opinione attorno alle grandi sfide accese dalla biomedicina sulla vita umana. I radicali si lanciano nell’ennesima operazione mirata a lacerare, e aprono la raccolta di firme per legalizzare l’eutanasia proponendo la storia della donna che, nella tragedia di una diagnosi infausta, ha purtroppo incrociato non una presenza amica ma la loro sciagurata campagna per reclutare testimonial disposti a farsi dare la morte nelle cliniche specializzate della Svizzera. Nelle stesse ore movimenti e associazioni del mondo cattolico s’impegnano per tutt’altra ricerca di adesioni sulla mozione europea «Uno di noi», mandando online 30 secondi di denuncia-choc su quel che l’embrione umano deve affrontare oggi per sopravvivere e venire alla luce: sperimentazioni, congelamenti, selezione, produzioni in serie con relativi scarti, aborti volontari... L’elementare diritto a vivere del più indifeso accanto al grido di una solitudine che chiede un senso per la sua sofferenza ma trova solo gli ineffabili strateghi della morte
on demand ben spalleggiati da tv nazionali e siti di quotidiani che per l’intera giornata di ieri hanno diffuso l’agghiacciante video senza trovarci nulla di disumano, o di illegale.L’embrione che palpita inerme e la donna altrettanto inerme col suo indicibile dolore e che dice di non voler più soffrire sono, in fondo, due racconti con risposte antitetiche sullo stesso dramma della condizione umana, dal suo primo apparire sino all’ultimo sospiro: un’inesorabile fragilità esposta a ogni genere di insidia, che si affida ad altri per poter sussistere nella fragilità estrema dei suoi momenti decisivi (l’embrione, il feto, il bambino, il malato, il disabile, l’anziano...). Ma la vita, quand’è più vulnerabile, non è mai "sola". E le mani alle quali si appoggia sono lì a dirle con la loro stessa presenza che, anche se non ancora o non più nitidamente visibile, la sua dignità è tutta intera, mai subordinata ad altro. C’è e basta. E per questo, in ogni civiltà degna di essere ancora considerata tale, ciascun essere umano vale sempre, senza graduatorie o decimazioni più o meno apertamente indotte, persino col falso plateale di far credere che eutanasie clandestine sarebbero praticate a man salva negli ospedali italiani. Obiettivo perseguito manipolando con «ignoranza», «supeficialità» e «malafede» i serissimi dati dell’Istituto Mario Negri, che si è subito dissociato da un’operazione mediatica «distorta e scorretta»: uno sgorbio che, insieme alla tardiva e maldestra marcia indietro dei radicali, la dice lunga sulla credibilità dell’iniziativa.Ma se siamo ancora persuasi che la vita è incompatibile con mediazioni devastanti (si accetta che embrioni vengano soppressi a migliaia, o che malati terminali trovino chi li aiuta a uccidersi) allora è il momento di agire, firmando la petizione europea per affermare che l’embrione è «Uno di noi» e non una "cosa utile". Subito su Internet, o al più tardi domenica 12 maggio, quando parrocchie e associazioni sono invitate a mobilitarsi per dire chiaro che non subiremo senza reagire l’azione di questo veleno che, come un’eutanasia delle intelligenze, ci vuole convincere che l’uomo è nulla.