Come la Enron, come la Lehman, come la Grecia. La truffa delle centraline manomesse su 11 milioni di veicoli diesel ha inserito di diritto la Volkswagen nella classifica dei grandi scandali internazionali. Un caso dalle implicazioni, industriali, morali, ambientali che può essere meglio compreso proprio se analizzato in relazione ad altre vicende già entrate nei libri di storia. Il diesel-gate, innanzitutto, può essere paragonato alla vicenda Enron, la multinazionale americana fallita nel 2001 dopo aver truccato per anni i bilanci gonfiando fatturati e profitti. Enron era considerata un modello di responsabilità sociale, proprio come Volkswagen, nonostante molto del suo operato procedesse in una direzione diametralmente opposta alla tutela dell’ambiente. Il gruppo automobilistico tedesco si è reso protagonista di un’azione nello specifico meno grave di quelle riconducibili alla Enron, tuttavia pensare a come è stata distrutta l’immagine di impresa modello di sostenibilità e responsabilità che si era conquistato negli anni pone non pochi interrogativi su quanto il 'marketing sociale' riesca troppo spesso a ingannare l’opinione pubblica, anche quella più attenta e sensibile. Un intero sistema ora vacilla paurosamente, insieme al modello di gestione aziendale partecipato (e sorvegliato) da sindacati, dipendenti ed enti pubblici, per cui Volkswagen era diventata un riferimento mondiale. A che serve tutto questo, ci si chiede oggi, se non riesce a mettere al riparo da eventi come il dieselgate? Il caso Volkswagen ricorda poi inevitabilmente lo scandalo Lehman Brothers, la banca d’affari americana fallita (o meglio: lasciata fallire) nel settembre 2008, e alla quale si può imputare la crisi di fiducia planetaria e il congelamento dell’attività creditizia globale che portarono alla caduta del sistema fondato sui mutui
subprime e sui titoli tossici ad essi collegati, anticamera della Grande Crisi. La 'colpa' di Lehman non era tuttavia molto diversa da quella delle altre grandi banche internazionali, considerato il sistema in vigore sui mercati da almeno un decennio, e che oltretutto contemplava la complicità delle agenzie di
rating incaricate di effettuare i test di affidabilità su quei prodotti finanziari. Il parallelo con l’opaco sistema di controlli sui motori delle auto, per i consumi oltre che per l’inquinamento, non è azzardato. Difficile dire ora se la stessa crisi di fiducia scoppiata dopo Lehman contagerà l’intero mercato dell’auto, di certo le analogie sono troppe e preoccupanti. Non solo per Volkswagen. Lo scandalo dei motori diesel assomiglia ancora di più a quanto fatto dalla Grecia per entrare nell’euro, quando nel 2001 truccò le cifre dei conti pubblici sottoscrivendo uno
swap (uno scambio di partite finanziarie) con la banca d’affari americana Goldman Sachs, così da rispettare i parametri per l’ingresso nel club della moneta unica. Quello che è successo poi è storia nota, considerato che stiamo ancora pagando le conseguenze degli errori nella gestione della crisi. In ogni caso è importante ricordare che ad Atene – e non solo ad Atene – l’operazione di
maquillage dei conti era stata di fatto consentita nel momento in cui Paesi come Germania e Francia si opposero ai controlli preventivi sui bilanci. Tutti in realtà avevano bisogno della Grecia nell’Euro, in particolare la Germania, per poter contare su una moneta comune competitiva e capace di facilitare le esportazioni dei Paesi virtuosi e allo stesso tempo l’indebitamento degli altri. Il parallelo con l’auto, anche per i troppi silenzi, è forte: la Volkswagen ha truccato i dati dei motori per sostenere quelle esportazioni che rappresentano l’unica vera benzina del Pil tedesco e consentono all’economia europea di avere in Berlino la sua locomotiva. Ma se tra lo scandalo Volkswagen e le vicende precedenti ci sono molte analogie, quali insegnamenti si possono trarre? L’analisi può considerare tre piani: 1) gli effetti sul mercato; 2) la ricaduta sulle regole; 3) le implicazioni per la responsabilità, pubblica e personale. Per prima cosa, dunque, è assodato che le ricadute del dieselgate sul mercato dell’auto e sull’intera economia europea, anche per l’importanza industriale e occupazionale dell’indotto, saranno significative. La ripresa che si incomincia a vedere deve moltissimo alla ripartenza del mercato dell’auto: uno stop in questo settore, proprio ora, è l’ultima cosa di cui c’è bisogno. Lo scandalo, oltretutto, cade in un momento particolare e per certi aspetti 'perfetto'. Stati Uniti ed Europa sono impegnati nella complessa negoziazione dell’accordo transatlantico (Ttip) sulle regole del commercio globale, inoltre gli Usa si preparano a rialzare i tassi di interesse e a rafforzare il dollaro: trovare indebolito in questa fase il gigante industriale del maggiore Paese esportatore in euro non è cosa da poco. In tal senso il caso Volkswagen, per le connessioni che ha con l’economia e l’occupazione in tutta Europa, richiede la massima attenzione della politica. Lasciare che la casa tedesca finisca come Lehman o la Grecia sarebbe un errore gravissimo. Una Volkswagen che non crolla, piaccia o no, è interesse di tutti. Anche dei concorrenti. Il piano delle regole è altrettanto importante. Gli scandali Enron, Lehman e Grecia sono serviti a rivedere il sistema di norme e garanzie. Restano ancora molti passi da compiere, ma il mondo dei mercati e l’architettura dell’euro oggi sono decisamente migliori rispetto a una decina di anni fa. Il dieselgate, allora, può essere l’occasione per rendere ancora più rigorosi o quantomeno 'credibili' i test sui veicoli. Tutti noi abbiamo comprato un’auto che consuma molto più di quanto dichiarato dal costruttore. E tutti sappiamo bene che le varie normative 'EuroX' hanno sì l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale, ma allo stesso tempo servono a rendere obsolete automobili che forse impatterebbero meno sul pianeta se non venissero rottamate così di frequente. Ultimo piano da considerare, quello della responsabilità. Il caso Volkswagen insegna che non possiamo permetterci sconti sul rispetto delle norme e nell’elevare gli standard ambientali. Ma gli scandali del passato ricordano che non si può delegare tutto alle regole per considerare chiuso il discorso e mettersi la coscienza a posto. La delega 'irresponsabile' al semplice rispetto della norma è proprio ciò che ha permesso l’organizzazione della truffa Volkswagen, orchestrata in modo così meticoloso, scientifico e sistematico da aver fatto perdere ai singoli – come per altre vicende storiche ben più tragiche – il senso della gravità di quello che insieme stavano compiendo. È lo stesso meccanismo che rischia di rendere ciascuno di noi potenzialmente pericoloso quando si attribuisce alle regole una virtù risolutiva e salvifica. Ben prima che caso ambientale, quello della Volkswagen è uno scandalo industriale. L’impatto ecologico delle auto col software incriminato può persino essere giudicato marginale rispetto ad altro genere di comportamenti considerati invece leciti e legittimi. È bene evidenziarlo, anche alla luce dell’enciclica
Laudato si’ di Papa Francesco e delle attese per la conferenza sul clima che si aprirà a Parigi a dicembre. Restando nel mondo delle quattro ruote si pensi a quante risorse pubbliche vengono impiegate ad esempio per realizzare strade e autostrade di dubbia utilità rispetto a quante ne vengono impiegate per incentivare il trasporto pubblico o una mobilità urbana veramente alternativa all’auto. A quanto poco viene fatto per rendere le città più vivibili, meno congestionate e anche meno inquinate da fonti diverse da quelle automobilistiche. E di certo non è comprando un veicolo 'Euro6' o un nuovo condizionatore 'ecologico', per poi usarli tutto il giorno, anche quando se ne può fare a meno, che possiamo considerare risolto il nostro rapporto con la 'casa comune'. Lo scandalo Volkswagen, figlio di una crisi morale come gli scandali precedenti, insegna che la ricostruzione di un clima di fiducia e di un ambiente favorevole alla vita e all’attività produttiva passa per un’assunzione di responsabilità collettiva, richiede cioè un sistema efficace di norme e controlli unito a una disponibilità personale a cambiare gli stili di vita.