La vicenda della coppia gay formata da un cittadino statunitense e dal suo consorte spagnolo, entrambi residenti negli Usa, ha riacceso il dibattito sulla maternità surrogata in Thailandia, dopo che lo scorso febbraio la nuova legge ha proibito l’utilizzo di donne locali per questa pratica a favore di coppie straniere. In gennaio la madre surrogata, che non ha alcun rapporto biologico con la bambina al centro della dolorosa vicenda, aveva consegnato
Carmen, neonata, ai due stranieri regolarmente registrati negli Stati Uniti come coniugi. In seguito si è però rifiutata di firmare i documenti che sarebbero serviti per l’espatrio della piccola. Un ripensamento giustificato col non essere al corrente – leggendo i soli documenti che le erano stati presentati riguardo alla coppia – della loro omosessualità. Tesi ripetuta in marzo, aggiungendo la dichiarazione di avere pagato da sola le spese mediche e confutando quanto riferito dal "padre" committente, Gordon Lake, di un pagamento complessivo di 35mila dollari. Sei mesi dopo la coppia e un loro figlio – un altro bambino nato in India 23 mesi fa sempre da madre surrogata – vivono ancora a Bangkok, cercando di convincere la donna che si è prestata per la gravidanza a pagamento,
Verutai Maneenuchanert, a rinunciare alla tutela della nuova legge thailandese.In parte, la situazione risente di un periodo di transizione tra un tempo di arbitrarietà, che aveva consentito di far crescere nel Paese un’enorme industria degli uteri in affitto col ricorso a donne locali per generare figli da esportare e che resta aperta all’utilizzo di strutture d’avanguardia per la stessa pratica su donne straniere, e l’applicazione diffusa delle nuove norme. La vicenda di Gordon e Manuel (Santos), comunque dolorosa per tutti gli attori in campo – a partire da quelli più indifesi –, è la prima a emergere con queste caratteristiche. Potrebbe non essere l’ultima, perché passare da snodo continentale della surrogazione di maternità a Paese "normale" non è un processo semplice: tra le conseguenze vi è anche l’apertura in Nepal di filiali delle catene di cliniche specializzate sorte a Bangkok e dintorni. Verso il Paese himalayano, già poverissimo e ora prostrato dal recente terremoto, si sono diretti tanti che hanno abbandonato il riferimento thailandese approfittando dei vuoti nella legislazione locale. A spingere il governo e il parlamento provvisori di Bangkok, sottoposti al potere militare, a legiferare per proibire il ricorso a donne thailandesi da parte di coppie in cerca di gravidanze a pagamento sono state due situazioni diversamente drammatiche emerse lo scorso anno. La prima ebbe per protagonista un 24enne imprenditore giapponese che è risultato avere avuto 16 figli da madri surrogate soprattutto thailandesi. La seconda riguarda il famoso caso dell’abbandono di "Baby Gammy" da parte della coppia australiana che l’aveva avuto, insieme a una gemellina, da una donna locale. I due stranieri erano partiti portando con loro la sorellina sana, lasciando Gammy – affetto da Sindrome di down – alle cure della madre.