martedì 24 settembre 2024
Sette anni dopo il lancio del sarcofago all'azoto, muore un'americana nella "macchina per l'eutanasia" del dottor Nitschke, fondatore di Exit. Gli arresti fanno capire però che non tutto è lecito
Sarco, la "macchina per l'eutanasia" creata da Philip Nitschke

Sarco, la "macchina per l'eutanasia" creata da Philip Nitschke - Ansa

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Nell’angusta capsula per la morte istantanea si entra coricandosi, come su una brandina. Sigillata la cupola, l’aspirante suicida aziona un contenitore che libera l’azoto, vaporizzato all’istante mentre dal loculo tecnologico viene estratto l’ossigeno. La morte, nell’incoscienza, arriva per soffocamento nel giro di 5 minuti. Delle prestazioni letali di “Sarco” si parlava dal 2012, quando per la prima volta si parlò dello strumento di morte ideato da Philip Nitschke, fondatore dell’associazione Exit che in Svizzera garantisce servizi di suicidio assistito (ne esiste anche una filiale italiana), insieme a Dignitas, cui sui rivolse l’Associazione Luca Coscioni per assicurare la morte a dj Fabo nel 2017. Dello stesso anno è il vero e proprio lancio di Sarco durante la convention di Exit a Toronto: fu allora che Nitsckhe – medico australiano che si è guadagnato il soprannome di “dottor Morte” – ne parlò come di una «euthanasia machine», e Avvenire ne diede conto.

Ma da allora, sebbene se ne fosse parlato periodicamente sui media in concomitanza con i ripetuti rilanci mediatici del suo inventore, Sarco non aveva dato mai ufficialmente prova di sé. È accaduto lunedì in un casolare nei boschi del Canton Sciaffusa, in Svizzera, e non è stato certo un successo: anzitutto per la morte di chi vi aveva preso posto, una 64enne americana che soffriva di una grave deficienza immunitaria e che aveva chiesto di morire dentro il sarcofago ad azoto mettendosi in contatto col suo inventore (che vive in Germania, a scanso di rischi): e poi perché la polizia cantonale ha proceduto a diversi arresti di persone collegate alla morte della donna, confermando così quel che aveva annunciato la ministra della Sanità elvetica Elisabeth Baume-Schenider rispondendo a un’interpellanza parlamentare sulla legalità di Sarco: la capsula non è conforme alla legge, chi aiuta altri a usarla per togliersi la vita è perseguibile per istigazione al suicidio.

E in un Paese che considera lecita la pratica a condizione che non ci siano interventi esterni o profitto in chi aiuta, vuol dire che non tutto è lecito, come vogliono far credere Exit, Dignitas e l’ultima nata le settore del suicidio assistito, l’associazione The Last Resort, secondo la quale la capsula sarebbe destinata a persone in «vecchiaia avanzata, con polipatologie legate all’età, malattia grave (cronica o terminale), demenza precoce (finché si mantengono le facoltà mentali», mentre resterebbero esclusi i giovani «a meno che non avviano gravi malattie fisiche (non psichiatriche)». Nella vaghezza delle definizioni, un perimetro di utenza assai ampio. Ora che la Svizzera ha di fatto messo fuori legge la “macchina per l’eutanasia” i sostenitori del diritto alla morte oltreconfine dovranno ricredersi sulla larghezza di vedute degli elvetici in fatto di morte procurata, argomento usato dai sostenitori nostrani del suicidio assistito che nel confronto con la flessibilità elvetica mettono sotto accusa la fermezza italiana (finché dura): Sarco è oltre la linea rossa.

E forse la vicenda di Sciaffusa potrebbe riaprire un dibattito che in Svizzera riaffiora periodicamente: il culto rossocrociato per la libertà personale si può davvero spingere fino al punto da trasformare il Paese in un mercato libero della morte per il resto del mondo?

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