Può accedere alla morte assistita il paziente maggiorenne colpito da una «malattia grave e incurabile», fonte di sofferenza «grave, cronica e inabilitante, causa di sofferenza intollerabile» e che comporti «dipendenza assoluta dal sostegno tecnologico». No, non è il disegno di legge sul suicidio assistito che andrà in discussione in Parlamento a settembre – così pare –, ma la legge spagnola sull’eutanasia in vigore da più di tre anni (fu approvata il 18 marzo 2021) che l’anno scorso ha portato a morte 750 persone, un terzo in più dell’anno prima.
Una legge simile, che dopo la nuova sentenza della Corte costituzionale italiana in materia di suicidio assistito sembra persino più prudente delle ipotesi che circolano in Italia, non solo ha aperto le porte a casi tutt’altro che eccezionali, come dimostrano i numeri in rapidissima crescita, ma non sembra in grado di risolvere gli stessi casi controversi sui quali oggi in Italia viene ancora applicato il “favor vitae”.
La vicenda in corso in Catalogna è esemplare. Una giovane di 23 anni, N.C.R., paralizzata dal 2022 dopo un tentativo di suicidio, ha ottenuto di poter morire per eutanasia ma la sua famiglia ha fatto ricorso per fermare la procedura sostenendo che la figlia non era del tutto padrona di sé quando ha deciso di morire. Con l’esecuzione dell’eutanasia già fissata per il 2 agosto nell’Ospedale Sant Camil di Barcellona, il giudice del 12° Tribunale amministrativo della capitale catalana è intervenuto per fermare tutto impugnando la questione davanti all’Alta Corte di Giustizia della Catalogna e disponendo che non si muova nessuno prima del pronunciamento della magistratura suprema. è la prima volta in Spagna che una procedura eutanasica viene fermata da un tribunale per vederci chiaro nel caso di specie e capire se la legge non ha maglie troppo larghe per evitare che casi assai dubbi come quelli della giovane catalana arrivino al passo definitivo.
Secondo Abogados Cristianos, fondazione di legali cattolici che ha assistito il padre della ragazza, un caso simile non rientra tra quelli consentiti dalla legge. La giovane soffrirebbe infatti di un «disturbo borderline di personalità e di disturbo ossessivo compulsivo» con ricorrenti pensieri suicidi e un drammatico tentativo di metterli in atto, a seguito del quale perse l’uso delle gambe. Per lei dunque non l’eutanasia sarebbe la soluzione dei problemi ma «un trattamento psichiatrico in modo da rimuovere le idee suicide». Un altro caso simile starebbe arrivando all’attenzione della magistratura iberica.
La legge spagnola prevede che chi soddisfa i criteri previsti debba chiedere la morte due volte per scritto a distanza di 15 giorni. La richiesta viene valutata da un medico designato come responsabile del caso, che deve chiedere un secondo parere a un altro medico indipendente. Se nel frattempo il paziente non ha cambiato idea, viene attivata una Commissione di garanzia (ce n’è una per ogni regione spagnola) composta da sette persone tra giuristi, medici e infermieri ai quali la legge demanda il controllo previo e successivo della pratica eutanasica. Eppure tra criteri tassativi di accesso, domande ripetute, verifiche plurime, N.C.R. – giovane con un disturbo della personalità e tendenze suicide non solo declamate – è stata autorizzata a ricevere l’eutanasia e non fermata come il diritto, la medicina e l’umanità imporrebbero. La domanda che va posta al legislatore italiano e a chiunque sia coinvolto nei percorsi di fine vita è quindi se siamo sicuuri che sia proprio l’eutanasia (e il suicidio assistito, che differisce solo per una sfumatura concettuale) la risposta alla sofferenza umana.