sabato 15 giugno 2024
Il 19 giugno i giudici della Corte costituzionale sono chiamati ancora a pronunciarsi sui criteri per la morte medicalmente procurata. Intanto fa riflettere un discusso verdetto della Corte dei Conti
Eutanasia e suicidio assistito: scegliamo la vita o il "diritto di morire"?
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La vicenda giudiziaria che ha portato alla condanna per danno erariale di Carlo Lucchina, già direttore generale della Sanità della Regione Lombardia, offre uno spaccato, ora per allora, del momento storico in cui si è consumato il percorso giuridico e umano di Eluana Englaro. Essa si impone anche al presente, costringendo a una acuta quanto drammatica riflessione sul tema dell’esistenza di un diritto a morire e di tutte le sue conseguenze, come alcuni ordinamenti esteri – ormai orientati in modo da ampliare sensibilmente le fattispecie scriminate – stanno a dimostrare. Senza parlare della discussione quanto mai attuale intorno al caso Cappato, di nuovo portato all’attenzione della Corte costituzionale il 19 giugno, in cui si tratterà di valutare la legittimità costituzionale della condizione da essa stessa imposta per la liceità del suicidio medicalmente assistito e, in particolare, il requisito della sottoposizione a trattamento di sostegno vitale.

Per entrare in merito alla sentenza della Corte dei Conti, può essere utile riandare alla complessa vicenda da cui scaturisce. L’ordinamento, infatti, si radica in un humus culturale e politico da cui trae le proprie ispirazioni più profonde che incidono anche sui risultati concreti a cui si perviene. Epilogo di una lunghissima serie di interventi della magistratura, intercorsi prevalentemente nell’ambito dei procedimenti di volontaria giurisdizione, la sentenza della Cassazione sul caso Englaro enuncia un principio di diritto, il riconoscimento del diritto personalissimo alla rinuncia delle cure, comprese quelle salvavita, inclusi quei trattamenti di sostegno vitale della cui natura terapeutica fino a quel momento si discuteva, cioè la nutrizione e l’idratazione. Considerate da molti non veri e propri presìdi medici ma semplici interventi corrispondenti all’umana natura che esige – per sopravvivere – di essere nutrita e dissetata. Il tutto in capo a una persona in stato vegetativo che “agiva” per tramite del tutore. Tanto che la Corte di Cassazione richiedeva, nell’ambito del principio di diritto enunciato, che fosse il tutore a dover fornire prove convincenti della volontà del paziente incapace di esprimere le sue determinazioni, ricostruendo sulla base di elementi preesistenti tale volontà.

Proprio questa ricostruzione ha comportato un ulteriore intervento del giudice e, in particolare della Corte d’Appello di Milano che, in qualità di giudice tutelare, ha dovuto accertare i presupposti enunciati nella sentenza della Cassazione, e ha autorizzato con proprio decreto l’interruzione di idratazione e nutrizione artificiali. A seguito di quest’ultimo provvedimento, si rendeva però necessario identificare chi avrebbe dovuto agire per porre in atto l’interruzione, visto che – in prima battuta – sia l’istituto presso cui Eluana era ricoverata sia l’Azienda sanitaria di Lecco si erano dichiarati non disponibili. Fu a seguito di una nuova richiesta del padre della ragazza che, sentita l’Avvocatura regionale e in presenza di una presa di posizione pubblica del ministro della Salute, la Regione – nella persona di Lucchina – emanò la nota contestata, in cui si esplicitavano le motivazioni del diniego a darvi seguito.

Tra tali motivazioni si segnala l’affermazione secondo cui l’atto del tribunale, così come interpretato dalla Regione per tramite dell’Avvocatura regionale, non conteneva un obbligo formale della Regione ad adempiere. La nota venne poi annullata dal Tar Lombardia a fine gennaio 2009 e, a fronte del non tempestivo attivarsi della Regione, ai primi di febbraio Eluana venne trasferita in una struttura privata friulana, dove concluse il suo percorso. La complessità della vicenda aiuta a cogliere la situazione di difficoltà e di incertezza in cui si trovò chi aveva la responsabilità – in quanto posto a capo delle strutture sanitarie pubbliche della Regione Lombardia – di intervenire. Se il compito di giudicare compete alla giurisprudenza, il compito di comprendere compete a tutti: tutti possono valutare se una forma di opposizione, considerata erronea fino alla illiceità, fosse in quel momento non interamente priva di fondamento. Va infatti ricordato che, al tempo, non esisteva una legge che prescrivesse le regole relative al consenso informato, così come non vanno sottostimate le plurime critiche della dottrina e dell’opinione pubblica di cui fu fatta oggetto la Cassazione per non aver chiamato in causa la Corte costituzionale, data la natura della questione.

Molto criticato fu anche il fatto che la sentenza non aveva in alcun modo considerato il tema di una possibile obiezione di coscienza del personale sanitario che sarebbe stato coinvolto nella procedura, il cui comportamento sarebbe stato sì giuridicamente scriminato ex art. 51 del Codice penale ma non assolto dal tribunale delle loro coscienze se convinte di star agendo contro principi etici ritenuti inderogabili. In questo controverso contesto la Regione, nella persona di Lucchina, prese la decisione di non conformarsi. Decisione che ora, dopo una prima sentenza di assoluzione della Corte dei Conti, sezione Lombardia, è stata giudicata illecita e gravemente colposa. Se dunque la questione può considerarsi conclusa, non essendo la sentenza più appellabile in sede nazionale, pur con gli elementi problematici di un percorso così tortuoso, due sono gli elementi da tenere presenti. In primo luogo occorre ricordare – innanzitutto a noi stessi e, quantomeno, pro futuro – che il riconoscimento in via giurisprudenziale di un diritto, a fortiori un diritto cosiddetto nuovo in quanto privo di basi normative stabilite dal Parlamento e nemmeno testualmente previsto in Costituzione, è un passo di estrema gravità, gravido di conseguenze per i destinatari ma anche per il contesto sociale. Oltretutto perché si tratta di un passo non fatto a seguito di una discussione parlamentare e all’esito del quale si possa addivenire a una accettazione delle diverse convinzioni in nome della prevalenza del principio democratico e del connesso principio di maggioranza.

Tale accettazione non è invece favorita da una decisione di un giudice: e infatti molti furono i tentativi successivi alla sentenza di ottenere – in forme pur non prive di problematicità – una smentita della stessa o, perlomeno, delle modalità con cui darvi seguito. Tra i motivi di discussione va infine ricordato che la decisione della Cassazione comportava uno sconvolgimento nel modo fino allora usuale di intendere l’attività medica e quella delle strutture sanitarie. Queste sono orientate in linea di principio a conservare la salute, e forse non pronte, in nome di un diritto sancito per sentenza, a porre in essere quella torsione di senso che comportava l’azione prescritta come doverosa ma la cui conseguenza pratica sarebbe stata di terminare una vita umana, senza neppure quella possibilità ultima di appellarsi alla propria coscienza.

Una seconda considerazione riguarda le motivazioni che, secondo la Corte dei Conti, sono state alla base della decisione incorporata nella nota contestata. La sentenza emessa nei confronti di Carlo Lucchina, che si muove sul piano della giustizia contabile, condanna al risarcimento del danno erariale avendo accertato che la condotta è stata tenuta sulla base di una volontà orientata all’affermazione di proprie convinzioni. La valutazione delle stesse viene fondata, infatti, «sulla base di una propria soggettiva considerazione della prevalenza del bene della vita della persona rispetto all’autodeterminazione della medesima». Una prospettiva diametralmente opposta a quella accolta nella sentenza di primo grado in cui i giudici avevano rilevato come il provvedimento assunto da Lucchina non si risolvesse in «una mera acritica ribellione alle decisioni del giudice civile, incentrata sulla pura e semplice volontà di non dare seguito a una pronuncia non condivisa nei suoi contenuti prescrittivi».

Poiché i tribunali devono restare fedeli alla loro caratteristica strutturale di least dangerous branch, le loro motivazioni dovrebbero tenere distinte – e non solo in presenza di questioni eticamente controverse – le convinzioni personali di chi è sottoposto alla loro giurisdizione dalla valutazione dei loro comportamenti. Insistere su un certo registro argomentativo, presente nella sentenza, non favorisce la sua accettazione, soprattutto da parte di chi, ancora oggi, si dice in coscienza contrario a scelte che finiscono per sottostimare la difesa di ogni vita, anche la più debole e apparentemente inutile.

* Ordinario di Diritto costituzionale Università degli Studi di Milano

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