Su un altro fronte, dopo 15 anni di studi condotti al Tiget (Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica), si è aperta un’importante finestra terapeutica per i bambini affetti dalla sindrome di immunodeficienza combinata grave da deficit di adenosin-deaminasi (Ada-Scid). Sono i cosiddetti "bimbi in bolla", in cui un gene difettoso ereditato da entrambi i genitori blocca una proteina fondamentale e li priva così delle difese immunitarie. GlaxoSmithKline, Fondazione Telethon e Ospedale San Raffaele di Milano hanno chiesto il via libera dell’agenzia europea del farmaco Ema alla terapia genica Gsk 2696273, sviluppata per correggere all’origine il difetto scritto nel Dna dei pazienti permettendo, per la prima volta, di guarire questi piccoli malati. «Le malattie genetiche sono migliaia, e spesso le risposte arrivano per una singola malattia – precisa Luigi Naldini, direttore del Tiget –, ma, una volta avuta la prova di efficacia per una specifica patologia, questo può rendere possibile lavorare anche su altre». Lo sviluppo della terapia genica non è agevole, ha un percorso di sperimentazione laborioso che richiede molto tempo e investimenti adeguati: «La ricerca ha bisogno di essere finanziata per dare risposte – commenta Naldini – e gli anni necessari allo sviluppo di una terapia garantiscono la sicurezza per i pazienti».Purtroppo gli stanziamenti per la ricerca scientifica sono spesso lasciati alla buona volontà dei privati o ai progetti europei, che non smettono di credere nella possibilità concreta di scoprire nuove cure. Per questo «la ricerca genetica deve continuare – chiarisce Giuseppe Banfi, docente di Biochimica clinica e biologia molecolare all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano –, prima di tutto perché ci sono sempre altre possibilità da esplorare e poi perché basta pensare all’enorme lavoro fatto da Telethon, dalle associazioni dei pazienti e dal network europeo Eranet che non smettono di puntare su questi programmi di ricerca».
Quando si parla di malattie geneticamente trasmissibili la diagnosi pre-impianto (Dgp) sembra una soluzione ma, conferma Banfi, bisogna fare molta attenzione: «Da un caso particolare, la Dgp rischia poi di essere utilizzata per cercare tutte le malattie possibili. E non sarà affatto semplice discriminare su quali malattie si possa intervenire e su quali no».«In questo momento sono pochissime le malattie genetiche su cui c’è una cura, e per questo una delle strade praticabili è cercare di capire se l’embrione è portatore di quel "difetto" o meno – spiega Antonio Amoroso, presidente della Società italiana di genetica medica (Sigu) –. Con la diagnosi si può riconoscere solo un determinato numero di patologie, ma in futuro si aprirà uno spettro molto più ampio di rilevazioni genetiche e sarà possibile estendere la ricerca a ogni tipo di malattia». Uno screening potenzialmente illimitato che, già ora, fa sorgere curiosi paradossi, come rileva Giuseppe Banfi: «Si cerca di far di tutto per far nascere un bambino sano, e poi magari non lo si vaccina contro la pertosse o la difterite, ritenute non pericolose...». Chi cerca una terapia non vuole che i propri pazienti muoiano, smettere di ricercare è perdere la speranza.