Un coro di reazioni ha accompagnato oggi la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo. Se i "nemici" della Legge 40 (dalla Coscioni Farina alla Pollastrini, da Antinori alla Perina) non hanno perso l'occasione per chiedere la ridiscussione in Parlamento, in modo da snaturare in senso più permissivo la normativa, altre voci hanno cercato di riflettere criticamente sulle conseguenze della sentenza."Siamo certi che il nostro Governo saprà difendere anche in questo caso le leggi votate dal Parlamento, e che presenti il ricorso alla Grande Chambre". A dirlo è
Eugenia Roccella, ex sottosegretrario alla Salute e redattrice delle linee guida sulla legge 40, non ancora emanate. "Il pronunciamento della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Cedu) era prevedibile - spiega in una nota - perché in primo grado le procedure adottate dalla Corte possono portare a decisioni incoerenti. I ricorsi alla Cedu dovrebbero avvenire dopo aver esaurito tutti i gradi di giudizio nella nazione di provenienza: nel caso in questione invece la coppia non si era nemmeno ancora rivolta a un tribunale italiano, configurando un caso palese di inammissibilità del ricorso europeo".Questo primo giudizio, secondo Roccella, "se fosse preso in considerazione dai magistrati italiani - continua - prima di un eventuale ricorso alla Grande Chambre, rischierebbe di metterli in serio imbarazzo, come è già avvenuto col recente pronunciamento della Corte Costituzionale sull'eterologa. Solo una sentenza definitiva può eventualmente influire sulla legislazione nazionale". "Oggi, prima che si scatenino interessi e speculazioni politiche faziose, i ministri della Salute e degli Esteri annuncino la volontà del governo di proporre ricorso alla Grande Chambre contro la sentenza-truffa di Strasburgo sulla legge 40: una sentenza immotivata e ideologica", invita il deputato Udc e capogruppo Ppe al Consiglio d'Europa,
Luca Volontè. "La sentenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo non cancella le problematiche etiche connesse alla diagnosi genetica preimpianto", commenta
Lucio Romano, Presidente nazionale dell'Associazione Scienza & Vita. "È bene ricordare - sottolinea Romano - che da genitori portatori di fibrosi cistica il 25% dei bambini ha probabilità di nascere malato, il 50% probabilità di nascere sano ma portatore e il 25% probabilità di nascere sano e non portatore. Con la tecnica della diagnosi genetica preimpianto, che richiede necessariamente una sovrapproduzione di embrioni, è implicito che anche embrioni sani, portatori e non, saranno soppressi". "Inoltre, - continua Romano - giustificare la diagnosi genetica preimpianto sulla base di un "'riconosciuto' diritto all'aborto esplicita tangibilmente la finalità selettiva eugenetica della tecnica stessa. Infatti, si pongono sullo stesso piano criteri diversi: norme che regolano tecniche di fecondazione artificiale con quelle che normano l'interruzione volontaria di gravidanza"."Prima di impartire lezioni al Parlamento italiano, la Corte europea dei diritti dell'uomo, che più volte ha brillato per ideologismo e sommarietà, provi a spiegare perché non valgono le argomente ragioni esposte pochi mesi fa dalla Corte di Giustizia dell'Ue. Magari sollecitata da un auspicabile ricorso per un doveroso riesame da parte del governo italiano". Lo dice
Alfredo Mantovano, deputato Pdl e coordinatore politico Circoli di Nuova Italia. "Per cortesia, vi mettete d'accordo? È la prima cosa che viene in mente apprendendo della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in tema di fecondazione artificiale - spiega -. In attesa di leggere per intero la decisione e sulla base delle notizie di agenzia, per tale organo la legge italiana in materia viola l'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, poiché, precludendo l'accesso alla diagnosi pre impianto prima di accedere a un trattamento di procreazione assistita, realizzerebbe una 'ingerenza nel diritto dei richiedenti al rispetto della loro vita privata e familiare'". Dunque, "peserebbe più il 'diritto' dei coniugi ad avere un figlio sano, e a non avere intromissioni in questo rispetto al 'diritto' di un essere umano a vivere a prescindere delle sue condizioni di salute e dalla fase iniziale della sua esistenza". Si dà il caso, insiste, però che la Corte di Giustizia dell'Ue, "con una sentenza pronunciata il 18 ottobre 2011, chiamata a pronunciarsi sulla brevettabilità relativa all'uso degli embrioni umani per fini industriali o di ricerca, abbia escluso tale uso partendo dalla premessa che 'fin dalla fase della sua fecondazione qualsiasi ovulo umano deve essere considerato come un embrione umanò, e quindi va ritenuto un essere umano, pur se è a uno stadio iniziale di sviluppo".