Foto d'archivio
Tra le ombre delle pratiche di fecondazione in vitro in India – un immenso campo aperto allo sfruttamento delle donne e a rischi per la loro salute – la produzione di ovuli è una problematica che va emergendo per le dimensioni e per le ulteriori situazioni che va evidenziando. Sarebbero almeno due le donne la cui morte è stata accertata come conseguenza della donazione di ovuli e il caso dell’indiana Daljinder Kaur, che ha dato alla luce un figlio a 72 anni nell’aprile 2016 dopo essersi sottoposta all’inseminazione artificiale, ha sollecitato a riflessioni pratiche e morali anche in una realtà distratta dalla sua vastità e dall’immensità dei suoi problemi.
Anche davanti all’attenzione internazionale, mai mancata da quando 40 anni fa fu registrato nel Paese il primo caso di fecondazione artificiale. Davanti alla crescente richiesta, non condizionata dallo 'stop' alla maternità surrogata a beneficio di stranieri decretata nel 2015 in attesa di una legge organica in materia, cliniche e organizzazioni che facilitano la pratica si moltiplicano e con esse i mediatori sguinzagliati nell’immenso Paese per cercare donne disponibili.
Non solo o non più tra i gruppi meno favoriti della popolazione femminile ma anche tra la classe media urbana, dove sempre più donne trovano nella donazione una fonte aggiuntiva di reddito o risorse per spese voluttuarie. La stessa fascia sociale dove si situa la maggioranza della clientela, sia per la minore dipendenza sociale e economica dalle famiglie tradizionali, sia per una maternità volutamente sempre più posticipata, sia – infine – per l’alta incidenza di infertilità tra la popolazione maschile indiana adulta. Oltre a una vasta casistica di espedienti e truffe, tra cui pagamenti parziali o negati e la 'rivendita' di ovuli da parte di cliniche o operatori sanitari senza una autorizzazione specifica del donatore a cui viene garantito un compenso modesto, le esperienze raccolte e diffuse da media e operatori sociali segnalano casi di fecondazione multipla, proibita per legge.
Sottoposte a iniezioni quotidiane di ormoni per una ventina di giorni, le donne forniscono così la 'materia prima' che sarà poi fecondata in laboratorio, ignare di chi sia il seme utilizzato o che fine faranno gli embrioni che si svilupperanno per essere impiantiti nell’utero di future madri oppure scartati durante il processo. Pratiche che portano a chi vi si sottopone senza una particolare selezione 20-50mila rupie (250-600 euro), ancora una volta violando la legge che prevederebbe la sola donazione volontaria. Gli interessi, tuttavia sono elevati e aggirano controlli e regole, peraltro applicati in modo blando e sovente vanificati dalla corruzione. Si stima che il mercato globale della fecondazione in vitro abbia un valore di 15 miliardi di euro.
Quello indiano, che valeva l’equivalente di 126 milioni di euro nel 2016, è previsto in crescita fino a 330 milioni nel 2022. Sottese allo sviluppo della pratica nel suo complesso e in particolare alla 'produzione' di ovociti vi sono problematiche che solo recentemente sono emerse e vengono indagate. La prima riguarda i rischi che terapie ormonali intense possono avere nello sviluppo di tumori. Non a caso la Legge sulla tecnologia riproduttiva assistita che attende il via libera in Parlamento (ma il Ministero della Sanità del popoloso Maharashtra, di cui è capitale Mumbai, ha dato vita a un comitato che proponga come contrastare la commercializzazione dell’utero in affitto) prevede che le donatrici vengano informate delle conseguenze, ben lontano dalla situazione attuale.
La seconda, legata a canoni di bellezza e di prestigio, riguarda la richiesta di ovuli da donne che presentino caratteristiche come il titolo di studio o come il colore della pelle più ambìto secondo i luoghi. C’è chi richiede addirittura un test per definire il quoziente intellettivo delle donatrici, nel caso vengano pubblicizzate come laureate, con clienti pronti a pagare anche centinaia di migliaia di rupie per ovuli da fecondare che si pensa possano garantire alla futura prole su commissione bellezza oppure la prospettiva di vita migliore ai genitori.
Una situazione che radicalizza elementi discriminatori già fortemente presenti nella società indiana. Come confermano agenti e mediatori coinvolti, è possibile a richiesta e dietro pagamento di onerosi compensi avere a disposizione hostess di volo, apprezzate per l’aspetto, avvocatesse, ma anche donatrici di ceppo caucasico sia per clienti indiani sia per stranieri intenzionati a portare avanti una gravidanza in proprio e non più surrogata.
Legato a questi aspetti è un ulteriore elemento di illegalità, stigmatizzato anche dal Consiglio indiano per la ricerca medica da cui dipende la regolamentazione in materia: la volontà per molti clienti di incontrare le donne fornitrici di ovuli da fecondare proprio per valutarne direttamente le caratteristiche che si ritiene saranno direttamente proiettate sui futuri figli. Tutte problematiche che, secondo l’Indian Journal of Medical Ethics, «andrebbero dibattute e comunicate ben oltre i limiti attuali».