Il medico francese Nicolas Bonnemaison, accusato di aver praticato l'eutanasia causando la morte di sette malati terminali tra il marzo 2010 e il luglio 2011, è stato condannato in appello a due anni di carcere con la condizionale per uno dei casi a lui contestati. Nel processo di primo grado era stato assolto. Bonnemaison, medico intensivista, si è sempre difeso sostenendo che aveva accelerato la fine dei pazienti per abbreviarne l’agonia, con l’intento di «alleviare, non di uccidere». La Corte d'assise di Maine-et-Loire è giunta al verdetto dopo oltre 15 ore di camera di consiglio. Il caso del medico 54enne aveva fatto molto discutere in Francia, e non solo per i crimini dei quali era accusato: dopo l’assoluzione in primo grado, nel giugno 2014, l’Ordine dei medici aveva infatti disposto un mese dopo a Pau la radiazione di Bonnemaison, che si era appellato al Consiglio di Stato vedendo però respinto il suo ricorso in gennaio e confermata la radiazione in via definitiva. Il pubblico ministero nel processo penale d’appello aveva chiesto una condanna 5 anni considerando che il medico non poteva essere considerato «un assassino o un avvelenatore nel senso tradizionale del termine». Il medico era accusato di aver somministrato Hypnovel, un potente sedativo, e Norcuron, un farmaco a base di curaro, ad alcuni pazienti anziani, incurabili e ai quali erano state sospese le terapie. Il tutto senza informare le famiglie. In Francia il Parlamento sta discutendo la revisione della legge Leonetti sul fine vita, approvata nel 2005, aprendo a forme di "sedazione profonda" – potenzialmente mortali – se il paziente è considerato terminale e chiede di vedere avvicinata la sua fine (o che per lui lo facciano i parenti). La nuova legge è fieramente avversata da associazioni che difendono categorie di pazienti particolarmente fragili e che temono una deriva eutanasica della sanità francese.
Due anni con la condizionale: una condanna lieve, per uno solo dei 7 casi di morte procurata dei quali Nicolas Bonnemaison è accusato. Ma il verdetto, in appello, ribalta l'assoluzione in primo grado.
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