sabato 30 marzo 2024
L'intuizione della trisomia 21, la determinazione a difendere la vita di chi ne soffre, la passione per i suoi pazienti, la sua eredità: parla il presidente della Fondazione Lejeune Jean-Marie Le Mené
Il genetista francese Jérôme Lejeune

Il genetista francese Jérôme Lejeune

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«Viviamo in realtà un triplo anniversario. Perché è pure quello della creazione della Pontificia Accademia per la Vita, di cui Jérôme Lejeune fu molto brevemente, prima di morire, primo presidente, designato da Giovanni Paolo II. Nel 1994, poi, avviammo pure la nostra Fondazione, per rispondere alle tante lettere delle famiglie che consultavano il professore per i figli con disabilità». A sottolinearlo è Jean-Marie Le Méné, presidente a Parigi della Fondazione Jérôme Lejeune, erede dell’impegno prodigato dal celebre genetista per i piccoli affetti da trisomia 21, nota anche come sindrome di Down: «Lejeune era una simbiosi straordinaria d’intelligenza e cuore. Incontrarlo dava a tutti l’impressione di un’elevazione. Aveva una personalità unificata».
Nel 1994 la morte di Lejeune fu dunque vissuta da tanti con enorme apprensione...

Sì. Da un giorno all’altro, tante famiglie temettero di ritrovarsi sole, perché all’Ospedale Necker di Parigi dove lavorava non ci fu una successione completa. Giunsero nuovi genetisti, ma non con l’intenzione di continuare sulle tracce di Lejeune.

L’eredità di Lejeune siete dunque anche voi...
Sul piano clinico, sì. Ed è stata una bella avventura, con tutti gli aspetti positivi, largamente preponderanti, e negativi. In quest’ultimo caso, mi riferisco all’asprezza della battaglia per la vita, già sperimentata sulla propria pelle da Lejeune, che concluse la sua vita anche logorato da questi scontri.
Gli aspetti positivi?

Abbiamo fatto tanti progressi clinici. Oggi seguiamo 13mila pazienti e siamo il centro di consultazione più grande d’Europa. Persino negli Stati Uniti i centri non hanno numeri così cospicui. Lavoriamo in modo pluridisciplinare e trasversale non mettendo limiti d’età. Abbiamo neonati ma pure pazienti anziani già seguiti da Lejeune, anche 50 anni fa. Grazie a questo, si è molto allargata la nostra visione clinica sull’evoluzione della malattia. Abbiamo aperto pure un ramo geriatrico, scoprendo ad esempio che molti portatori di trisomia sono pure affetti da una forma di Alzheimer alquanto precoce. Finanziamo inoltre la ricerca, e questo resta per noi un’altra missione centrale.
Con quali risultati?
Siamo riusciti a rilanciare l’interesse per la ricerca. Il nostro Consiglio scientifico finanzia ogni anno un numero importante di progetti. È una ricerca interessante per i malati e per la scienza in generale, anche sull’aspetto chiave delle patologie incrociate. In particolare, nei giovani affetti da trisomia 21 cerchiamo marcatori di alcune malattie, come l’Alzheimer, in fase pre-sintomatica. Trovarne equivale a un beneficio per tutti.
I frutti del lavoro cominciato da Lejeune schiudono dunque orizzonti imprevisti?
Credo di sì. E per questo la nascita della Fondazione sia stata cruciale. Sul piano professionale gli ultimi anni di Lejeune furono difficili perché molti colleghi l’avevano abbandonato per via delle sue posizioni sull’aborto. Inoltre, riceveva molti meno fondi. Oggi credo che sarebbe felice di vedere che l’interesse per la ricerca è stato rilanciato, anche se non abbiamo ancora trovato una cura. Alla fine della sua vita Jérôme Lejeune era ossessionato proprio dal fatto di non aver guarito i bambini. Quasi come se ne avesse tradito la fiducia. Un’amarezza legata anche all’avvento dell’eliminazione quasi sistematica in fase prenatale.
Lejeune continua a ispirare anche in chiave clinica?
Sì: il consulto prima di tutto il resto, ripeteva. Non interruppe mai quest’impegno medico sul piano clinico, pur essendo al contempo un ricercatore. Impossibile, per lui, rompere la prossimità con i malati. Una lezione attualissima, dato che il connubio fra ricerca e clinica resta raro nel nostro campo specifico. Ma è un po’ ciò che manca anche per tante altre malattie. Eppure, storicamente, gli spunti per la ricerca sono venuti spesso dal contatto quotidiano con i malati. Lejeune resta un modello di questa simbiosi. Del resto, con umiltà, considerava la scoperta della causa genetica solo come un primo passo, non certo un coronamento. Ricevette anche onori ma questo non fu mai per lui un aspetto centrale. Nella sua scia siamo oggi molto fieri delle nuove fondazioni in suo nome all’estero: quelle già nate in Spagna e in Argentina, così come un’altra prevista negli Stati Uniti. Persino in Giappone ho scoperto con sorpresa quanto la figura di Lejeune brilli ancora come una luce ispiratrice.

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