E’ lecito ricorrere alla procreazione medicalmente assistita per conoscere le malattie dell’embrione? E ancora: è conforme ai nostri valori costituzionali forzare una legge per raggiungere questo obiettivo? Depurato dai tecnicismi giuridici, appare questo il cuore della questione che la Corte Costituzionale tratterà martedì in udienza pubblica. Un procedimento che vedrà presente solo l’"accusa", in quanto la Presidenza del Consiglio dei ministri ha deciso a sorpresa di non costituirsi in giudizio – tramite l’Avvocatura generale dello Stato – a difesa dell’"accusata" legge 40 nell’udienza prevista martedì prossimo. Il problema affonda le sue radici nel 2004, quando il Parlamento decide a larga maggioranza di limitare la fecondazione in vitro alle sole coppie affette da «sterilità» o «infertilità», e sempre che sia «impossibile rimuovere le cause impeditive della procreazione» (articolo 4). La stessa disposizione, all’articolo 13, circoscrive poi «la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione» alle sole finalità «terapeutiche e diagnostiche», escludendo in radice «ogni forma di selezione a scopo eugenetico». Tutto chiaro: le coppie autorizzate a concepire in provetta possono effettuare esami – ben circoscritti – sugli embrioni ma non sono autorizzate a scartarli nel caso risultino malati. D’altronde, lo spirito della legge è proprio quello di "aiutare" la natura, non sostituirsi a essa.
Il quadro cambia nel 2008, quando l’allora ministro della Salute Livia Turco emana nuove linee guida, 6 giorni prima della caduta del Governo Prodi, con un atto politicamente discutibile, introducendo in contrasto con lo spirito della norma la possibilità di effettuare sul concepito in provetta la diagnosi pre-impianto: un controllo medico degli embrioni all’esito del quale sia possibile collocare in utero quelli sani e far fuori quelli malati. Prende le mosse da tutto ciò il caso che martedì passerà al vaglio della Consulta. Ricorrenti sono due coppie portatrici di malattie genetiche, che possono generare e vogliono un figlio che sia sano. Al Tribunale di Roma si rivolgono dopo aver bussato a due strutture sanitarie e incassato un diniego: niente provetta né conseguente diagnosi pre-impianto. È su questa premessa che l’organo giudicante, facendo proprie le argomentazioni delle coppie, chiede alla Consulta di pronunciarsi sulla legittimità o meno di questo divieto. Quale prima censura, i ricorrenti sostengono che l’intera norma violi l’articolo 2 della nostra Carta fondamentale, minando al diritto della coppia di autodeterminarsi nelle scelte procreative. Ma Lorenza Violini, ordinario di Diritto costituzionale alla Statale di Milano, ad Avvenire osserva che «ci sono buoni argomenti per sostenere che l’autodeterminazione è da bilanciare con il valore costituzionale della difesa dei soggetti deboli». Come il concepito. Allo stesso modo, quando le coppie affermano di essere discriminate da questa legge poiché minerebbe il loro diritto ad avere un figlio sano, è la stessa Cassazione a ricordar loro che «non esiste un diritto a non nascere, o a non nascere se non sano» (sentenza 16123/2006). Certo, si tratta di un desiderio comprensibile. Ma pur sempre un desiderio: dunque da sperare con il cuore, non da esigere con un ricorso.
Dal canto suo Vincenzo Antonelli, docente di Diritto sanitario alla Luiss di Roma, ritiene che la legge 40 non violi nemmeno l’articolo 32 della Costituzione che tutela la salute. Le coppie sostengono infatti che la gravidanza non anticipata da una diagnosi pre-impianto esponga la donna al trauma psichico dell’aborto terapeutico. Rileva il docente che «tale interruzione di gravidanza è praticabile solo quando vi sia serio o grave pericolo per la salute della donna. Infatti, come detto dalla Cassazione, le malformazioni del feto non sono sufficienti per l’aborto terapeutico. E poi bisogna stare attenti a non dilatare troppo, snaturandolo, il concetto di salute. Soprattutto quando trasmigra nella sfera psichica». Ed ecco l’ultima censura: secondo i ricorrenti, a fondare il loro diritto sarebbe anche la Carta europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che si è pronunciata su un caso simile nella sentenza «Costa Pavan» pronunciata nel 2012. Sulla scorta di quella decisione, nel caso in esame sarebbe violato anche il primo comma dell’articolo 117 della nostra Costituzione, che vincola il legislatore nazionale a rispettare il diritto internazionale. Ma attenzione: le norme della Cedu si applicano solo in quanto conformi alla Costituzione, e a dirlo è la stessa Consulta a partire dalla pronuncia 348/2007. Difficile dunque che il divieto di provetta per le coppie con malattie genetiche possa risultare incostituzionale. Ancor più quando lo si vorrebbe tale per raggiungere fini estranei alla legge 40.