La storia di Vincent Lambert, 42enne francese in stato di minima coscienza, la cui sorte è legata alla decisione dei giudici (e ora all’organismo delle Nazioni Unite che si occupa di diritti dei disabili), non può non sollevare una questione primaria: che tipo di società è quella che decide che una persona gravemente disabile non è degna di vivere? A sottolineare la gravità di una scelta di questo tipo non sono solo i familiari dei pazienti ma soprattutto medici e scienziati che da decenni si occupano dei disordini della coscienza.
«Ogni anno ci sono 10-15 nuovi casi con grave cerebrolesioni acquisite ogni 100mila abitanti – sottolinea Matilde Leonardi, direttore del Centro ricerche sul coma dell’Istituto neurologico Besta di Milano –, con un aumento dei casi che hanno un’origine vascolare o per un difettoso apporto di sangue al cervello. In Italia la pratica eutanasica è vietata, come lo è dalla World medical association che definisce l’eutanasia un atto non medico. L’azione discriminatoria nei confronti del paziente disabile viene attestata dal fatto che viene sospesa l’alimentazione non perché si è aggravata la malattia ma solo perché disabile. L’Italia dovrebbe chiamarsi fuori da ragionamenti che non appartengono alla nostra cultura. Chi invece vuole sospendere i trattamenti lo fa per pregiudizi ideologici verso i disabili».
Per le persone con disordini della coscienza esistono trattamenti all’avanguardia (la stima dei pazienti vegetativi è in Italia è di 3mila casi): «Noi effettuiamo un lavoro di neuro-riabilitazione multidisciplinare che comprende sia la riabilitazione neuromotoria sia quella respiratoria e, in parallelo, quella foniatrica - spiega Rita Formisano, direttore dell’Unità neuroriabilitazione e post-coma della Fondazione Santa Lucia di Roma –. Sono poi importanti la riabilitazione cognitivo-comportamentale e il lavoro di coinvolgimento dei familiari che rappresentano un canale emozionalmente privilegiato nel miglioramento della responsività. Nella mia esperienza di 35 anni – precisa – non è mai capitato che un familiare mi chiedesse di interrompere idratazione e nutrizione. Al contrario, purtroppo, non è raro che ci siano rimpianti o rivendicazioni da parte dei familiari nei pochi casi in cui non siamo riusciti ad aiutare questi pazienti».
È dunque un dato di fatto che «la medicina, grazie alle nuove capacità di rianimazione, può salvare sempre più persone che, se giovani, possono vivere anche per anni – dice Lucia Lucca, responsabile dell’Unità di risveglio dell’Istituto Sant’Anna di Crotone –. Ecco perché dovremmo proporre sempre modelli diversi, piccole grandi unità di cura, assistenza a domicilio». Il peso spesso ricade invece sulla famiglia. Molte volte sono i genitori a dedicarsi alla cura del proprio caro. Il problema nasce quando si crea tensione fra i familiari. La famiglia di origine vorrebbe sempre portarli a casa. Ma se una moglie ha i figli piccoli, lo sconsiglio sempre: facciamo fatica noi adulti, immaginiamo un bambino. Ritengo perciò che come società dovremmo farcene tutti carico».
Nelle situazioni di stato vegetativo e di minima coscienza «certamente non c’è alcuna ragione né clinica né etica che possa giustificare di porre fine a questa vita», ammonisce Francesco Napolitano, vice presidente della Federazione nazionale associazioni trauma cranico (Fnatc) e presidente dell’associazione Risveglio. Si tratta piuttosto di «volontà dettate da un’ideologia: non stiamo accompagnando a una "dolce morte" chi ha poche ore o giorni di vita, ma stiamo volendo la fine di una persona che potrebbe avere ancora tanti anni davanti, in una situazione la cui evoluzione è imprevedibile».
Ma se a fare notizia sono pur sempre pochissime storie, nelle quali il disaccordo familiare arriva fin dentro i tribunali, la maggior parte delle persone invece vive accanto a questi pazienti con amore e dedizione, come testimonia Gianluigi Poggi, presidente dell’associazione Insieme per Cristina: «Abbiamo visto esempi costanti che dimostrano la reazione di queste persone. Talune parti del cervello infatti reagiscono ad alcuni stimoli. E tutto questo viene supportato dal grande amore, che è un ingrediente fondamentale, oltre al sacrificio, all’assistenza quotidiana che rassicura queste persone, le fa sentire vive, dando loro messaggi silenziosi recepiti anche se sono in stato vegetativo». «Noi ci troviamo ad avere a che fare con persone che hanno avuto una grave lesione cerebrale, totalmente disabili ma che hanno bisogno per poter vivere solo di relazione di cura fatta di alimentazione, igiene, vestizione – spiega Giovanni Battista Guizzetti, responsabile del reparto Stati vegetativi del Centro don Orione di Bergamo –. Queste persone non hanno bisogno di alcun supporto tecnologico, non sono malati terminali. Chiaramente se gli togliamo acqua e cibo in due settimane muoiono. Abbiamo persone ricoverate per più di vent’anni, con una vita decorosa dentro una relazione di cura, con personale, parenti, amici che li vengono a trovare. In 20 anni di esperienza in questa struttura non è mai venuto nessuno a chiedere la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione per loro».
Se dunque si invoca la sospensione dei sostegni vitali nei casi di disordini della coscienza, la risposta non può che essere legata a priorità ideologiche o economiche. «In quel caso, siamo di fronte a una filosofia della vita utilitaristica per cui se si trova in una condizione di malattia o di disabilità, e non potendo più far parte del ciclo produttivo e consumistico, si diventa un peso. E dunque si può essere tolti da questa società. Per fortuna, noi in Lombardia – puntualizza Guizzetti – abbiamo un servizio sanitario che provvede alla cura di queste persone per tutta la vita gratuitamente. Quindi, il bisogno di sospensione dell’idratazione o di soppressione di queste persone non esiste perché c’è l’incontro tra bisogno, domanda e una risposta di assistenza buona».