Carlo Casini
Ecco il ricordo di Diego Cremona, amico di Carlo Casini, avvocato, già componente del direttivo del Movimento per la Vita, introducendo la Messa nella Basilica della Santissima Annunziata di Firenze il 23 marzo, quarto anniversario della morte,
Mi sono domandato se Carlo Casini mi fosse stato più maestro o testimone. Dal maestro si apprendono cose, anche preziose. Dal testimone si è illuminati. Sentivo che per me valesse soprattutto la seconda. Ma la risposta migliore l’ho trovata imbattendomi in parole che erano di Paolo VI: «L’uomo contemporaneo [...] se ascolta i maestri, è perché sono dei testimoni».
L’invito a preparare questo ricordo introduttivo mi ha felicemente costretto a ripercorrere i quattro decenni in cui ho avuto Carlo – ma ancor oggi peraltro considero d’averlo – in qualche modo e misura accanto come uno dei miei riferimenti più importanti. E ho alfine voluto scegliere, nell’ampio orizzonte di questo periodo, alcuni momenti significativi (tra i numerosi altri) per ricavarne i tratti delle sue intuizioni profetiche, di sapore lapiriano, della sua indomabile e affettuosa generosità, della sua sensibilità discreta, della sua capacità di gioire (come di soffrire e offrire la sua sofferenza), e in ultimo, ma fondamentalmente, della sua incrollabile fede in Gesù.
Conobbi Carlo nel marzo del 1981. Ero, come già mi è accaduto di raccontare, ancora agli inizi del mio percorso universitario e non esito a confessare quanto ancora assai poco chiaro mi fosse il perché di quella scelta di studi. Carlo svolgeva quella sera (ricordo ancora perfettamente – e lascio a voi immaginare perché – l’occasione, il luogo, l’ora di quell’incontro) una sua relazione legata alla incombente vicenda referendaria. Ma volava alto.
Ebbene, uscii da quell’incontro con un duplice lascito. Il diritto mi sembrava intanto una cosa... addirittura bellissima, e poi una scoperta convinzione: che la cosiddetta priorità ontologica del diritto alla vita fosse – e inevitabilmente – una splendida, e chiarissima, stella polare.
Rammento che lo attesi a fine incontro per porgli una domanda. E da lì nacque un suo invito. Tornai a casa leggero, quella sera, con una letizia nuova nel cuore: comprendevo intanto che gli studi che probabilmente avrebbero in qualche misura segnato la mia vita per l’avvenire avevano orizzonti più rotondi, e più nobili, di quanto non avessi fin lì potuto sospettare. Ma soprattutto percepivo nel suo invito a dare un séguito a quella occasione la possibilità di un’amicizia nuova che poteva fondarsi su cose così serie. E prima ancora così belle. E dunque la possibilità di un impegno nuovo, che avrebbe potuto declinare in concreto quella promessa, giovanile e generica, che avevo già fatto a me stesso di lavorare a un mondo migliore. E quell’impegno prese poi, infatti, davvero corpo (non ne giudico i risultati, s’intende) negli anni a venire.
Salto poi in avanti. Di molti anni. Avevo partecipato per sua indicazione a un dibattito radiofonico sul tema della procreazione medicalmente assistita la cui conduzione (della trasmissione) a me era apparsa faziosa. Chiamai Carlo riferendogli tutto – come spesso accadeva in circostanze analoghe –, ricevendone, certo, come prevedibile, comprensione e incoraggiamento, ma soprattutto ricevendone qualcosa di non così dovuto, di più prezioso: la sensazione che affidandogli ogni tua amarezza lui sapesse (r)accoglierla e trasformarla in qualcosa di utile, e con ciò, assumendola su di sé, sapesse in qualche modo misterioso liberartene, sgravarti da quel peso. Quante volte questo è accaduto!
Meccanismo in fondo analogo – in qualche misura – scattò poi anche in un’altra, pur assai diversa occasione. Quella che derivò dalla necessità che avvertii un giorno di partecipargli un affanno sul piano personale. Lo caricai così della mia preoccupazione. E lui mi dette sùbito ascolto, attenzione, affettuosa sensibilità. Affetto condito da un ottimismo che non rinviava mai solo alle nostre capacità, alla nostra bravura, alla nostra strategia d’azione, ma alla bontà dell’Altissimo. Alla sua misericordia, verso cui
la sua fede mi è sempre apparsa davvero incrollabilmente orientata. Fu bello intercettare la sua partecipazione, il suo ascolto riservato, il suo sguardo affettuoso, e il suo costante invito a guardare alto, e oltre.
E indimenticabile è poi anche l’ultimo incontro con Carlo, a Roma a casa di Marina, sua figlia. La malattia lo aveva ormai fisicamente attinto. Sapevo in qualche modo della condizione che viveva. E tuttavia l’impatto fu davvero forte. Lo trovai, accuditissimo, con uno sguardo che – al di là di una prima piacevole e tenera sensazione che ebbi d’essere stato riconosciuto – mi parve smisuratamente proteso nell’oltre, quasi vedesse già cose che noi, appartenenti ancora al mondo dei “sani”, non potevamo vedere. Mirandolo provai come un singolare impulso, un po’ come quello
che può provarsi quando vedi un bambino che si sporge pericolosamente attratto, oltre misura, su un panorama ignoto. E vorresti proteggerlo, afferrarlo. Ci salutammo pregando insieme, presenti Maria, sua moglie, e Marina. Fu struggente. Ne trassi tanto umano sgomento, lo confesso. Mistero. Ma anche il senso di un limite che Carlo sapeva accettare e offrire.
Ma trovo ancora tra i miei ricordi, facendo stavolta un passo indietro nel tempo, un altro fotogramma che vi porgo. E sarà l’ultimo. Ci trovavamo per un impegno del Direttivo e della Giunta esecutiva del MpV presso la Comunità di Nomadelfia, a Roma. Era un sabato sera, d’estate. Avevamo lavorato intensamente l’intera giornata. Dopo cena, un’altra impegnativa riunione. Stavamo quindi tutti sciamando – era quasi mezzanotte – per rientrare nelle nostre camere ma parte qualcuno con un canto alpino. Carlo si aggrega da sùbito, e rilancia. E rilancia a oltranza (mandava a memoria, vi assicuro, non so quanti canti alpini...). Con un entusiasmo così puro, genuino... Guardarlo e gioire era tutt’uno. Contagiava, inevitabilmente. Ecco, alfine sì, sento che Carlo mi è stato maestro e testimone. E maestro (per dirla col beato Montini) perché, prima, testimone.
Dispensando, da par suo, quanto ha dispensato, donando alla sua maniera sé stesso, ha reso a me più credibile la proposta cristiana. Ed era appunto questo, penso, che a un testimone di Cristo, quale egli era, il dono più grande che potevamo domandare.