sabato 13 luglio 2024
Vent'anni nella "parrocchia" ospedaliera dell'Istituto nazionale dei tumori di Milano, e ora un premio internazionale per la sua attività pastorale tra malati e medici. Parla don Tullio Proserpio
Don Tullio Proserpio, cappellano dell'Istituto nazionale dei Tumori di Milano

Don Tullio Proserpio, cappellano dell'Istituto nazionale dei Tumori di Milano

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I vent’anni da cappellano dell’Istituto nazionale dei Tumori di Milano li ha appena completati, essendo arrivato nella sede di via Venezian il 1° luglio 2003. Prete dal 1996, don Tullio Proserpio di suo è architetto, con tanto di laurea: una sensibilità che si avverte nel suo modo ordinato ma creativo di affrontare le questioni proposte dalla sua “parrocchia” ospedaliera, sempre più multietnica e plurireligiosa.

I parrocchiani di don Tullio sono medici, infermieri, ricercatori, tutto il personale di una complessa macchina clinica e scientifica di avanguardia mondiale come l’Int, ma sono soprattutto loro: i pazienti, che stanno combattendo la battaglia contro un nemico purtroppo spesso ancora letale come il cancro e convivono con l’ombra lontana o prossima della morte e la domanda sul proprio destino. Accanto a loro, famiglie e amici, anch’essi parte di un popolo del tutto particolare, portatore di angoscia e speranza, domande e dubbi, certezze presunte sulla vita e la morte e attese per una medicina che si fa straordinariamente capace di offrire guarigione là dove sembrava esserci spazio solo per la disperazione ma finisce, anche senza volerlo, per seminare “miracolismi” che lasciano dietro di sé una scia di amare delusioni.

Come si fa a essere preti dentro una realtà così complessa? Da vent’anni Proserpio – che sulla soglia dei 60 conserva un fisico da atleta, con l’aria ironica e vissuta da attore di western – apre la sua strada, studiando sempre come crescere (lo testimonia l’esperienza in corso nella cappellania di un ospedale in Irlanda), apprezzato all’Istituto dei tumori come un’istituzione, un amico, una presenza indispensabile. Meriti che gli sono appena valsi il premio internazionale Padre Jaime di Bogotà, che va a una personalità che si è segnalata per la sua azione nella pastorale della salute.

Don Tullio, lei sta maturando un’esperienza di cappellanie all’estero. Che tendenze vede emergere?
Il riconoscimento che mi è stato conferito è stato del tutto inaspettato e perciò particolarmente gradito, soprattutto considerando la lontananza geografica e culturale dell'area di provenienza del premio rispetto alla nostra realtà italiana. Questo evento è però un chiaro riflesso di alcune tendenze attuali. In un mondo fortemente interconnesso su tutti i livelli, anche il settore della salute si sta orientando verso una maggiore interconnessione. La realtà dell’Istituto dei tumori e l'esperienza che sto maturando a Cork, mettono in evidenza un crescente bisogno di tessere reti di sostegno. Assistiamo a un'espansione della telemedicina, delle applicazioni cliniche dell’intelligenza artificiale e delle consulenze mediche digitali, che, pur essendo soluzioni utili, presentano non poche sfide per pazienti, familiari e personale sanitario. Contemporaneamente, si registra un incremento dell'attenzione per la dimensione spirituale, riconosciuta come parte essenziale del processo di cura.

Cosa vede emergere nella domanda di spiritualità?
L'aumento della domanda di supporto spirituale evidenzia quanto sia vitale condividere le nostre esperienze per comprendere meglio e quindi sostenere efficacemente chi è in difficoltà. Si nota in modo marcato la necessità di costruire reti di supporto attorno agli individui sofferenti, un segno di controtendenza rispetto alla prevalente logica individualista della nostra società. È fondamentale creare una rete sociale attorno alla persona malata; qualora questa manchi, è indispensabile svilupparla, anche intercettando realtà che possono essere lontane dal nostro modo di interpretare la vita e il suo significato. Si richiede una disponibilità a non rimanere ancorati alle pratiche consolidate, ma piuttosto a esplorare percorsi meno battuti. In questo modo, si formano quei “ponti” che papa Francesco spesso invoca, essenziali per un'autentica assistenza pastorale e umana.

A quali sfide si deve preparare la pastorale della salute, e come deve attrezzarsi per affrontarle?
Non possiedo certamente la chiave per risolvere questi problemi, ma posso evidenziare alcune tendenze emergenti e atteggiamenti che dovremmo valorizzare. È difficile oggi continuare a pensare di essere noi che ci definiamo credenti gli unici ad aver capito quali sono i problemi delle persone ammalate, a scapito di altri che forse hanno anche modi di vedere e interpretare la realtà lontani dal nostro modo di pensare. Forse può anche essere così, questo tuttavia non esclude che talvolta, se non spesso, ci possono insegnare come accompagnare e sostenere le persone ammalate. L’atteggiamento autoreferenziale che spesso assumiamo, oggi non aiuta, non serve, non svolge un servizio autentico alla parola del Vangelo. La complessità è il tema dominante in molti ambiti, inclusa la sanità, e la nostra missione è di gestirla efficacemente. Dobbiamo riconoscere e valorizzare i segni di bene nelle persone che incontriamo nel nostro percorso di sostegno e di vita quotidiana, siano essi pazienti, familiari, medici, infermieri o altri membri del personale. Questo scenario non vede protagonisti solo i “sapienti” che devono insegnare e gli “ignoranti” che devono imparare; piuttosto, si tratta di una condivisione reciproca tra persone che si supportano a vicenda. Inoltre, la tendenza a posizionarsi come detentori esclusivi della verità, specie quando non si condivide la fede cattolica, è particolarmente alienante e spesso viene percepita come presunzione o arroganza. Questo atteggiamento non solo è dannoso ma impedisce anche una vera comprensione delle molteplici sfaccettature della vita umana e della cura.


Cosa occorre per comprendere questa sfida e affrontarla?
Oggi, più che mai, è fondamentale una formazione di alto livello per chi opera nel campo della pastorale della salute, che non si limiti alla teoria, ma includa un'intensa pratica affiancata al letto del paziente, supervisionata e continua, per colmare la distanza tra la nostra realtà e quella di contesti esteri dove tali standard sono già norma. La formazione dovrebbe essere un equilibrio tra teoria e pratica, preparandoci a dialogare con professionisti altamente qualificati e a comprendere profondamente le realtà dei pazienti.

A che profilo di formazione pensa?
L'attenzione crescente alla dimensione spirituale richiede un approccio rinnovato: i formatori dovrebbero equipaggiare i futuri cappellani non solo con solide basi teoriche, ma anche con le competenze pratiche necessarie per affrontare le sfide quotidiane dei malati. In questo modo, possono veramente assistere i pazienti nella loro ricerca di senso, speranza e conforto durante i momenti di isolamento, paura e incertezza.

In che modo va offerta la visione cristiana della vita e della morte in contesti sempre più secolarizzati e multireligiosi?
È essenziale che il fondamento cristiano della nostra professione ci permetta di mantenere un'apertura che accoglie e rispetta le diverse opinioni e interpretazioni che emergono nel servizio quotidiano. Questo non implica certo un abbandono delle nostre convinzioni ma piuttosto un impegno a esprimere e vivere queste convinzioni in maniera autenticamente inclusiva e rispettosa della pluralità di prospettive presenti nella società contemporanea.

Accanto al paziente, oggi, qual è la domanda più ricorrente che si sente rivolgere?
Non è semplice identificare con certezza assoluta la domanda più rilevante che si pone accanto al letto di un paziente. Tuttavia, sembra che emerga prepotentemente il bisogno di condivisione, soprattutto nei momenti di fatica e sconforto. Raramente le prime richieste che riceviamo sono di natura esplicitamente religiosa o evangelica. Questo aspetto, tuttavia, sottolinea un bisogno profondamente umano: il desiderio di condivisione. È attraverso questo scambio che, a volte, può nascere una domanda di sostegno spirituale. Ma è importante sottolineare che l'obiettivo primario del nostro supporto non è rispondere immediatamente con risorse religiose ma piuttosto offrire una presenza che sia empatica e sostentativa. Il processo di maturazione spirituale ed emotiva di ogni individuo è profondamente personale e non completamente accessibile a noi: solo Dio conosce pienamente i cuori. Il nostro ruolo, quindi, è quello di offrire un volto autenticamente evangelico, che sia inclusivo e non giudicante, accogliente in ogni circostanza. Questo approccio dovrebbe essere applicato non solo nei confronti dei pazienti, ma anche verso i loro familiari e il personale sanitario. L'essenza del nostro ministero risiede nella capacità di essere presenti e disponibili per tutti coloro che incontriamo, rispecchiando la compassione e l'accettazione che sono al cuore del messaggio evangelico.

Come si sta evolvendo il rapporto tra cappellani e istituzioni sanitarie?
Non esiste un criterio uniforme per valutarlo, il che complica il processo di professionalizzazione del servizio offerto. La legge 833 del 1978, nonostante i suoi adeguamenti regionali, non favorisce adeguatamente l'attenzione e il riconoscimento dell'importanza della dimensione spirituale nella cura del paziente. Sarebbe cruciale integrare la figura del clinical chaplain all'interno delle équipe curanti, seguendo l'esempio di quanto già avviene più frequentemente all'estero.

Come può evolvere la figura del cappellano in una società aperta?
Anzitutto va detto che l’evoluzione non dovrebbe essere un appannaggio esclusivo della Chiesa ma dovrebbe estendersi a tutti coloro che soddisfano determinati requisiti accademici e pratici, proprio come avviene in altri Paesi. Affermare che l'Italia è diversa dagli altri Paesi non giustifica le carenze nel nostro sistema. C'è una forte tendenza a mantenere lo status quo, per evitare problemi e non perturbare l'ordine esistente, ma questo approccio conservatore non fa altro che limitare il potenziale di miglioramento e innovazione. Papa Francesco ci incoraggia a superare questi limiti, invitandoci a cercare coloro che sono fuori dal “recinto” con uno spirito di accoglienza, disponibilità e benevolenza. Questo atteggiamento proattivo è essenziale per costruire una società migliore, più umana e più vicina ai principi evangelici. È necessario un cambiamento significativo, che non sia limitato dalla paura di compromettere la figura del cappellano, ma che miri a rafforzare la sua presenza e efficacia all'interno del sistema sanitario.

Torniamo al tema della formazione, che le è particolrmente caro...
Una formazione adeguata e universalmente riconosciuta è fondamentale, così come avviene per i medici e gli infermieri, i quali, una volta formati in Italia, possono operare efficacemente anche all'estero. Questo riconoscimento internazionale della qualità della formazione dovrebbe essere esteso anche ai cappellani ospedalieri. I tentativi passati, come quelli intrapresi dai Camilliani con l'Istituto Camillianum di Roma, purtroppo non hanno avuto il seguito sperato a causa della chiusura dell'istituto, indicando la necessità di una strategia diversa e più inclusiva. La speranza è che possa essere sviluppata e implementata una formazione che sia riconosciuta a livello internazionale e che risponda pienamente alle esigenze del settore.

Lei svolge il suo ministero all’Istituto nazionale dei tumori di Milano. Qual è il profilo specifico che assume in un contesto come questo la presenza del cappellano?
Nel mio ruolo all'Istituto ritengo fondamentale adottare un atteggiamento di condivisione, supporto, sostegno e conforto, nonché di grande stima verso tutti gli operatori. Il riconoscimento del ruolo del cappellano da parte del personale sanitario è essenziale per facilitare l'accesso ai pazienti e offrire un aiuto tangibile ed efficace. In un ambiente improntato alla ricerca scientifica è cruciale mantenere un'apertura verso la condivisione e la pubblicazione di studi e ricerche, includendo le sfide e le opportunità presentate dalle nuove tecnologie, come l'intelligenza artificiale.

Cosa pensa dell’arrivo dell’Intelligenza artificiale in medicina?
Delegittimarla a priori non contribuisce a creare un clima di collaborazione; al contrario, è importante riconoscere e integrare queste nuove tecnologie nel nostro lavoro. Ad esempio, l’iniziativa “Rome Call for AI” promossa nel febbraio 2020 dalla Pontificia Accademia per la Vita, nella persona del presidente monsignor Vincenzo Paglia, ha visto l'immediata adesione di entità come Ibm, Fao, Microsoft e il Ministero per l'Innovazione del governo italiano, con la partecipazione di figure come l’allora presidente del Parlamento europeo, il compiantto David Sassoli. L'interesse verso l'IA continua a crescere, coinvolgendo governi e università sia italiane che internazionali. Anche papa Francesco, durante il G7 del 14 giugno, ha evidenziato come l'IA possa essere utilizzata per il bene comune se impiegata saggiamente. Non si tratta di uno strumento minaccioso, ma di un potenziale alleato per l'umanità. Un recente articolo sul British Medical Journal ha discusso come l'IA possa alleggerire i medici dai compiti burocratici, permettendo loro di dedicare più tempo all'incontro e al dialogo con i pazienti. Inoltre, nella rivista Tredimensioni 2/2024, insieme al Carlo Alfredo Clerici, docente di Psicologia clinica all’Università degli Studi di Milano, abbiamo esplorato come queste tecnologie stiano influenzando anche la pastorale sanitaria.

Resta però centrale il “fattore umano”...
Certo, è fondamentale riconoscere che nonostante l'importanza dell'IA, la relazione personale rimane irrinunciabile nella cura delle persone ammalate. Insisto: questa specifica attenzione richiede una formazione sia teorica che pratica di alto livello, al fine di garantire che i cappellani possano continuare a fornire un supporto efficace, rispettando e valorizzando sia i pazienti che il personale sanitario alla ricerca continua di miglioramento professionale.

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