giovedì 31 ottobre 2013
​​Un mercato in piena espansione, una domanda occidentale allergica alle regole, sfruttamento delle donne. Nasce un’agenzia nazionale per controllare il disumano suk delle gestazioni a pagamento. Troppo tardi?​ TUTTE LE PUNTATE
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Da due recenti articoli apparsi sul Times of India è emerso ancora una volta quanto sia ormai fuori controllo il fenomeno degli uteri in affitto nel gigante asiatico, Paese tanto emergente in termini economici quanto ancora assai problematico sul piano dei diritti umani. Il 19 ottobre il quotidiano documentava come la pratica della maternità surrogata sia diventata questione di «impresa di famiglia». Sarebbero sempre di più, infatti, le figlie di famiglie indigenti che scelgono di seguire le orme delle madri e di concedere per nove mesi il proprio corpo per accogliere il figlio di coppie provenienti dal mondo occidentale. Rekha e Renuka sono madre e figlia: la prima ha affittato il proprio utero a una coppia australiana, mentre la seconda ha portato in grembo il bimbo di una coppia americana. La madre dice di aver avviato «senza pensarci» la figlia a quella che definisce «una professione rispettabile»: con quanto guadagnato dalla maternità surrogata, la donna racconta di aver comprato una casa e un risciò al marito, mentre i soldi della figlia sono stati investiti per garantire un futuro a lei e ai suoi eredi. Dello stesso tenore è il racconto della quarantenne Sharda, già madre surrogata e oggi fiera di sua figlia Sunita: con i soldi guadagnati affittando l’utero, Sharda è riuscita a far sposare le tre figlie e quando Sunita si è trovata in difficoltà economiche le ha consigliato la maternità surrogata. Sunita potrà così comprarsi una casa e aiutare il marito, che guadagna poco. Secondo la dottoressa Nayana Patel, che dirige la clinica Akanksha per la fecondazione artificiale, il 75% delle donne che decidono di affittare il proprio utero ha il marito disoccupato. Per la direttrice della clinica questo fatto, unito all’approvazione delle madri nei confronti della scelta delle loro figlie, deve portare a considerare l’affitto dell’utero una vera e propria professione. Un quadro molto chiaro che non fa che confermare quanto ormai è noto in merito al vero e proprio mercato globale della maternità surrogata: è la miseria che spinge le donne a prestare il loro corpo a coppie occidentali benestanti. Proprio su questo argomento tre giorni dopo il racconto delle storie di Rekha, Renuka, Sharda e Sunita, è stato ancora il Times of India a mettere in guardia sullo sfruttamento delle donne in India. La regolamentazione della maternità surrogata, già più volte oggetto di restrizioni messe in atto contro il sempre crescente numero di coppie etero e omosessuali che scelgono l’India come fucina di figli su misura (da inizio anno un giro di vite ha riguardato in particolare il mercato ufficiale delle maternità surrogate per le coppie gay), è divenuta il compito della neonata Instar, la Società indiana per la riproduzione assistita. L’Instar raccoglie esperti di infertilità, embriologi e giuristi che intendono darsi regole condivise per il rispetto e il benessere delle madri surrogate, preso atto che ormai quella delle mamme a noleggio è diventata una vera e propria industria nazionale. Il presidente di Instar, Himanshu Bavishi, ha dichiarato che nel recente convegno scientifico tenuto dal neonato istituto è stato stabilito un salario minimo per le donne che affittano il proprio utero e un rimborso per le famiglie di quelle che muoiono per complicazioni legate alla maternità. Indennizzi sono previsti anche per coloro che dovessero essere sottoposte a isterectomia o asportazione delle tube. Inoltre, sempre secondo quanto deciso da Instar, i documenti contrattuali che una donna si troverà a firmare per stipulare accordi con la coppia committente, dovranno essere redatti in una lingua perfettamente comprensibile dalla madre surrogata. Dubbi circa lo sfruttamento delle donne e sulla reale comprensione da parte loro dei contenuti dei contratti firmati erano stati avanzati dal report Surrogate Motherhood. Ethical or Commercial, elaborato dal Centre for Social Research, impegnato per la tutela dei diritti delle donne in India e pubblicato lo scorso luglio. Da quell’esplosivo rapporto era nata l’inchiesta estiva di Avvenire, che ha sollevato il velo su una forma di sfruttamento del corpo femminile sinora totalmente censurata.​
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