Davide Macciucco in una immagine dal suo profilo Facebook
«Non possiamo mai tirarci indietro di fronte al dolore e alla sofferenza»: lo scrive il vescovo di Termoli-Larino Gianfranco De Luca in una riflessione diffusa dalla diocesi molisana sul caso della tragica fine di Davide Macciocco, il quarantenne termolese paralizzato da vent’anni per le conseguenze di un tuffo in un tratto di mare con un fondale troppo basso, che ha deciso per il suicidio assistito in Svizzera, messo in atto il 15 settembre, spiegando il suo gesto con una lunga lettera pubblica su Facebook che ha suscitato molti e contrastanti commenti online, con l'intervento di uno dei più noti specialisti italiani in cure palliative, Marco Maltoni. Proprio dalla lettera trae spunto il vescovo per le sue considerazioni: «Il nostro fratello Davide, nel suo ultimo messaggio sui social, con grande lucidità affida a tutti la testimonianza della sua condizione esistenziale: “Mi sembra di aver vissuto due volte in una vita... Amo troppo la vita, perciò ho scelto di abbandonarla”». Parole che sembrano contraddire la scelta di morte che poi Davide illustra. De Luca conferma che la lettera «non lascia indifferenti ma, accanto a sinceri sentimenti di vicinanza e di solidarietà alla famiglia, interpella anche il credente che ripone in Dio il senso della vita e della sua fine e che si rende presente con la preghiera di suffragio con la quale la Chiesa accompagna ogni persona che abbandona questo mondo».
Come reagire, da credenti, a una decisione di morte espressa con estrema lucidità? «In questo momento – premette il vescovo – mi sento vicino ai suoi familiari, amici, conoscenti e con loro condivido dolore sincero e rivolgo al Signore l’invocazione di tutta la nostra Chiesa locale». E aggiunge: «Con grande semplicità e umiltà mi sembra di dover professare la fede cristiana nel Signore della vita: la vita è un dono, e quindi anche un compito, una responsabilità, una vocazione che viene da Lui, e come tale va vissuta. La mia fede riconosce quindi il senso positivo della vita umana come un valore in sé, che la luce della fede conferma e valorizza nella sua dignità».
Ma occorre che questo sincero annuncio intersechi la storia concreta e drammatica di Davide. La sua scelta, aggiunge De Luca, «suscita in noi anche il problema della cura e dell’accompagnamento di quanti vivono drammi analoghi a quello di Davide, la cui libertà è fortemente condizionata dalla malattia e dal dolore, perché ad essa viene negata ogni ulteriore possibilità di relazione umana, di senso dell’esistenza. In questa società secolarizzata in cui molte persone muoiono da sole e desiderano e chiedono la morte come rimedio al peso della vita, possiamo trovare elementi di riflessione sull'importanza di essere vicini a chi muore e a chi soffre».
Di qui l’impegno al quale il vescovo chiama la comunità ecclesiale: «Non possiamo mai tirarci indietro di fronte al dolore e alla sofferenza. Fare un passo indietro significa lasciare il malato solo con il suo dolore e la sua sofferenza; non possiamo fare questo. Gesù l'ha denunciato nella parabola del Buon Samaritano che eÌ capace di riconoscere, in mezzo al dolore e alla sofferenza, la dignità della persona e di fare “un passo in avanti”. Quello che dobbiamo guardare non è solo il problema del dolore ma anche il problema della solitudine, intesa non tanto come assenza di persone, ma come solitudine vitale, quella solitudine in cui il malato affronta la crisi interiore causata dalla sua malattia. Il Buon Samaritano è modello di cura per i malati terminali e ci ricorda le parole di Cristo stesso: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi i miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). L'affermazione di Gesù diventa una verità morale di portata universale: si tratta di “prendersi cura” di tutta la vita e della vita di tutti».
Bisogna «accompagnare il malato non solo con il sollievo del dolore e della sofferenza fisica, che naturalmente deve venire prima, ma anche con un sostegno globale per il malato nella sua dimensione fisica, psicologica, sociale, familiare, spirituale ed economica». La ferita riaperta dal suicidio di Davide è «la solitudine dei malati» che è «spesso anche la solitudine di coloro che li assistono e dei propri cari che manifestano con grande sofferenza tutta la loro impotenza». L’appello alla «società in generale» e alla «comunità cristiana, in particolare» è «diventare una vera comunità sanante, dove si dia voce a tutta la centralità delle relazioni interpersonali, evidenziata dall'antropologia contemporanea ma non sufficientemente praticata negli attuali processi di cura e assistenza».
La tragedia del quarantenne tetraplegico – «il caro fratello Davide», come lo chiama monsignor De Luca – «ci provoca e ci interpella riguardo a una realtà dolorosa di fronte alla quale il nostro territorio, in particolare, mostra gravi carenze e sollecita tutti, livelli istituzionali, associativi e ogni singola realtà attiva in ambiti assistenziali, a prendere seriamente in considerazione la promozione di strutture che sostengano ammalati e familiari, per mostrare concreta condivisione e dare loro speranza e fiducia».