Vincent Van Gogh, Il Buon Samaritano - .
Desidero anzitutto rivolgere un ringraziamento, mio personale e dell’Accademia, alla Conferenza dei Vescovi Cattolici del Canada, in particolare nella persona di Mons. William McGrattan, per aver organizzato questo importante momento di studio su una tematica di grande rilevanza e urgenza, come la sofferenza della persona anziana, in fase avanzata di malattia o prossima alla morte.
Siamo tutti consapevoli della importanza che i temi indicati nel programma di questi tre giorni rivestono non solo per il Canada, ma per l’intera umanità, in un momento storico come quello che stiamo vivendo e che tristemente, non sembra offrire molti spiragli di luce. Non voglio anticipare considerazioni che emergeranno in maniera più opportuna nel corso dei lavori, tuttavia non posso non
condividere con voi il sussulto dinanzi all’evidenza della scandalosa facilità con cui, nelle situazioni di malattia grave, avanzata, di terminalità e, purtroppo, in forme sempre più allargate di disagio esistenziale, il valore della vita umana – o meglio della dignità di ogni persona umana - viene messo in discussione da quella “cultura dello scarto” che papa Francesco non cessa di denunciare.
In quanto Accademia per la Vita, da tempo seguiamo con interesse quanto è stato fatto nel campo delle cure palliative, anche su esplicita indicazione di Papa Francesco, il quale, proprio in occasione di una Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita – era l’anno 2015 - ha definito le cure palliative come “espressione dell’attitudine propriamente umana a prendersi cura gli uni degli altri, specialmente di chi soffre. Esse testimoniano che la persona umana rimane sempre preziosa, anche se segnata dall’anzianità e dalla malattia. La persona infatti, in qualsiasi circostanza, è un bene per sé stessa e per gli altri ed è amata da Dio”. In quell’occasione il Santo Padre incoraggiò i professionisti presenti ad acquisire competenze in questa area; ma devo dire che, anche nei colloqui personali che
ho avuto con Papa Francesco, mi ha sempre incoraggiato a portare avanti il tema delle cure palliative indicandomi anche la prospettiva ecumenica e interreligiosa come di particolare valore per promuovere e diffondere la cultura della vita e l’amore per le persone in questa fase tanto delicata e fragile dell’esistenza umana.
L’Accademia per la Vita, in questi anni si è adoperata per intensificare la riflessione sul tema del fine vita e delle cure palliative come una delle grandi sfide etiche dei nostri tempi e del prossimo futuro. In realtà, sin dalla Parabola del samaritano il Vangelo chiede il coinvolgimento personale per la cura di chi ha bisogno. E il “samaritano”, che non era un credente ebreo, viene presentato da Gesù come un esempio di vera religiosità. La Chiesa è chiamata a seguirne le orme. E’ il Vangelo che lo chiede.
Prendersi cura del malato “mezzo morto” – in questo orizzonte si possono collocare anche le cure palliative – è una priorità che il Vangelo chiede a tutti, a partire dai discepoli di Gesù. E’ diritto di quell’uomo “mezzo morto” ad essere accudito e un dovere per chiunque per accudirlo. L’Accademia per la Vita sente tale responsabilità. Ritengo che, sollecitati da quanto accade nella comunità internazionale, abbiamo il dovere di studiare, anche attraverso il confronto di esperienze, le strategie e i modelli di superamento delle difficoltà che impediscono alle cure palliative di arrivare al letto del paziente e di operare a sostegno delle famiglie, benché non manchino le leggi e i modelli teorici al riguardo.
Avviando il Progetto Pal-Life nel 2017, la Pontificia Accademia per la Vita ha inteso assumere seriamente la sfida umana e sociale posta oggi a tutti noi dalla fragilità dell’età avanzata, della malattia grave o terminale, offrendosi come partner scientifico e culturale di una comunità, come è quella della medicina palliativa, profondamente impegnata, con tutta l’intelligenza della mente e con tutta la compassione del cuore, nel trovare risposte degne per un’umanità profondamente bisognosa.
Da un lato è quanto mai opportuno attirare l’attenzione e sollecitare una riflessione sul tema della dignità umana, non solo nell’ambito della sensibilità ecclesiale, ma anche nel contesto delle trasformazioni culturali in cui viviamo. Siamo ben consapevoli del fatto che, nella discussione intorno alle circostanze – azioni, dichiarazioni, regole – che pretendono di trovare giustificazione nella tutela della dignità umana, si trovano collocate posizioni molto diverse, e addirittura opposte. Per esempio, in nome della dignità del morire si sostiene la legalizzazione dell’eutanasia. Come ha recentemente richiamato il documento del Dicastero per la Dottrina della Fede “Dignitas infinita”, circa la dignità umana, l’eutanasia e il suicidio assistito si appellano a un «concetto errato di dignità umana per rivolgerlo contro la vita stessa». Il rischio di non reagire adeguatamente alla edificazione di una
società in-degna è reale. L’enfasi sulla dignità del singolo paradossalmente toglie attenzione alla dignità della comunità, del legame sociale. È dunque necessario portare in campo una sollecitazione a produrre il migliore chiarimento possibile del valore di questa categoria e delle ambivalenze che ne insidiano l’eventuale strumentalizzazione o l’uso puramente retorico dell’appello alla dignità della vita e della persona e ribadire con forza che la sofferenza e la fragilità non intaccano minimamente nel malato quella dignità che gli è propria in modo intrinseco e inalienabile. Piuttosto la stessa fragilità può - e deve - diventare occasione per rinsaldare i vincoli di una mutua appartenenza e per prendere maggiore coscienza della preziosità di ogni persona per l’umanità intera.
La forza della fragilità
La radicale fragilità della nostra condizione umana emerge più volte nel corso della nostra esistenza, sia individuale, sia comunitaria/istituzionale. La stessa storia dell’umanità è costellata da profondissime crisi, come tutti noi abbiamo sperimentato con la recente pandemia, la quale, possiamo dire, “ha toccato con precisione chirurgica tutte le nostre fragilità”.
È vero che oggi, rispetto a un passato nemmeno troppo lontano, viviamo di più e meglio. Ma non possiamo ignorare la tanta vulnerabilità che ancora accompagna il genere umano, a volte in forme sconosciute nelle epoche passate. Certamente possiamo offrire molti guadagni all’essere umano, ma pare che non siamo in grado di risanare la sua radicale fragilità. E se questa fragilità che non abbiamo scelto, che a volte tenacemente combattiamo, fosse un dono? La fragilità si tramuta in dono quando, attraverso la dipendenza che essa cagiona, ci apre alla possibile bellezza delle relazioni. Tutti alla nascita eravamo nudi, piangenti e in balia del mondo. Allora, una relazione ci ha salvati e ci ha consentito di crescere, di irrobustirci, di creare cose belle e nuove. Ci accorgiamo, tuttavia, che questa radicale dipendenza potrà essere dimenticata, nascosta, ma mai oltrepassata. Ancora una volta saranno delle relazioni a trarci fuori dalla non autosufficienza, a salvarci. Parlare di dipendenza, tuttavia, significa descrivere in modo parziale la realtà, vale a dire assumendo l’unidirezionalità della fragilità. Una descrizione più completa richiede invece di parlare di interdipendenza; ciò rivela la reciprocità tanto del bisogno come del dono, che si realizza attraverso la relazione. Solo descrivendo la condizione umana in termini di interdipendenza – anziché di sola dipendenza – è possibile apprezzare la fragilità come un dono. Al contempo, anche l’interdipendenza rimane risignificata, divenendo solidarietà, fraternità.
È pertanto necessario ampliare gli orizzonti. È necessario svincolare la cura dalla sfera privata e/o domestica o da quella tecnico-sanitaria; è indispensabile restituirle il significato sociale ed eleggerla a prassi diffusa, in grado di incidere sugli equilibri complessivi della società. È la memoria della comune condizione di fragilità che costituisce la vera base del legame sociale; ed è il legame sociale che trasfigura la fragilità da bisogno e dono.
È allora naturale che, con Hans Jonas, l’“etica della cura” divenga il presupposto per ripensare i fondamenti della solidarietà sociale che nasce dal riconoscimento di un “noi”, fondato sulla “somiglianza nel dolore e nell’umiliazione” ma anche sull’intrinseca e inalienabile dignità che appartiene ad ogni essere umano. La cura è indissolubilmente legata al reciproco riconoscimento e alla reciproca responsabilità. Un reciproco riconoscimento perché l’altrui fragilità è specchio per la nostra propria fragilità; l’altrui dignità è specchio della nostra propria dignità.
Possiamo riscoprire legami di solidarietà tra di noi, che coinvolgano anche persone in apparenza lontane o differenti? Possiamo coinvolgerci in un progetto di società di cui facciano parte gli anziani, i poveri, gli ammalati, i disabili, ma anche gli stranieri, i carcerati... i quali ricordano a tutti la comune fragilità e l’urgenza della cura vicendevole? D’altro canto, dalla pandemia abbiamo appreso in una maniera molto concreta che potremo sopravvivere in questo mondo solo nell’orizzonte di un nuovo patto sociale tra i popoli. Qualcosa che la politica – sempre più oppositiva – stenta invece a recepire. È l’dea più volte pronunciata da Papa Francesco: un nuovo futuro è possibile solo se ci incamminiamo verso l’unità della famiglia umana che responsabilmente abita il pianeta come la “casa comune” di tutti.
Il prendersi cura significa un modo attento di vivere il rapporto con gli altri, un modo consapevole dell’altrui fragilità e dignità. È un modo di relazionarsi diverso dal dominio e dal contratto. È il senso di compiere un gesto di eccedenza rispetto alla logica utilitaristica. Siamo pronti a prendere congedo dall’individualismo e dall’indifferenza, dal delirio di onnipotenza per riaprire l’orizzonte di una civiltà della compassione?
La cura: dono e responsabilità
Come reagire alla presa d’atto della nostra costitutiva fragilità, della nostra comuna vulnerabilità? Dobbiamo persistere nel rifiuto, negando questo lato oscuro e concentrandoci ancora di più nello sforzo di accrescere la nostra potenza, il nostro dominio sulla vita e sulla realtà? Oppure si tratta, aprendo occhi e cuore, di percorrere un’altra strada? Rimuovere la fragilità dallo sguardo e abbandonarla ai margini non è una soluzione. L’incuria e l’indebolimento dei legami, a partire da quelli familiari, rappresentano i tratti distintivi del modello sociale che abbiamo costruito negli ultimi decenni, modello promosso da una cultura iper-individualista e iper-capitalista. Un modello culturale e sociale sempre più distante dalla philia aristotelica che ha ispirato e plasmato la nostra civiltà occidentale per molti secoli e prima ancora che il cristianesimo nutrisse di misericordia e compassione la nostra relazione con ciascun uomo, nostro fratello. Un modello culturale e sociale che dà luogo ad un mondo che corre veloce, in cui siamo abituati a seguire protocolli e procedure e non sappiamo più cosa siano la sapienza e la prudenza; in cui il desiderio è ridotto a consumo; in cui facciamo fatica a trasformare gli accadimenti in esperienza. Si fanno tante cose, per lo più in modo distaccato e superficiale, senza essere veramente presenti, prossimi gli uni agli altri. La realtà è che stiamo diventando incapaci anche solo di vedere l’impotenza, la fragilità, il fallimento, la malattia, la morte che ci circondano, di lasciarcene toccare, di farci mettere in movimento. Papa Francesco avverte con saggezza: “Dio ci esorta ad affrontare la grande malattia del nostro tempo: l’indifferenza. Non possiamo restare indifferenti. È un virus che paralizza, rende inerti e insensibili, un morbo che attacca il centro stesso della religiosità, ingenerando un nuovo tristissimo paganesimo: il paganesimo dell’indifferenza” (Assisi, 20 settembre 2016). Ancora: “Il male è contagioso. L’onda del male si propaga sempre così: comincia dal prendere le distanze, dal guardare senza fare nulla, dal non curarsi, poi si pensa solo a ciò che interessa e ci si abitua a girarsi dall’altra parte. È un rischio per la nostra fede che appassisce se resta una teoria e non diventa pratica, se non c’è coinvolgimento, se non ci si
spende in prima persona” (Angelus 20/11/22).
Di fronte alle contraddizioni del nostro tempo, abbiamo un solo correttivo: contrapporre alla cultura dello scarto quella della cura, avviare una politica della cura e abbandonare quella dello scarto. Una cura che si estenda a tutta la vita, sia nella sua dimensione temporale che in quella del significato, del senso dell’esistenza. Una cura che, quindi vada oltre, e in un certo senso preceda, la dimensione della salute o il comparto della sanità. La cura riguarda sempre sia il livello delle relazioni interpersonali, sia quello del loro strutturarsi sul piano sociale. Proprio il prendersi cura che sta alla base di ogni vivere sociale, ristretto o allargato che sia, è dunque un valore che ciascuno di noi è chiamato a coltivare fino a farne una disposizione virtuosa, un agire eccellente. Parole probabilmente superflue in questa sala, dal momento che per i professionisti sanitari qui presenti il “prendersi cura” non è solo una dinamica umana ordinaria, ma l’origine di una vocazione professionale e il modello di uno stile di vita.
Questo nostro incontro vuole non solo confermare l’attenzione da parte nostra al movimento delle cure palliative, ma anche individuare i modi per promuovere una sensibilizzazione la più larga possibile verso il prendersi cura nelle condizioni di fragilità. E, in effetti, ritengo che ciascuna società – quella civica, così come quella declinata professionalmente – abbia un “debito” nei confronti delle
cure palliative, in relazione alla “riscoperta”, oggi, della fondamentale dinamica umana del “prendersi cura”, gli uni degli altri. Una dinamica che proprio perché “fondamentale”, appartiene per natura ad ogni essere umano e rappresenta una conditio sine qua non per la realizzazione umana e personale di ciascuno di noi; una dinamica, pertanto, al di fuori della quale non può esservi sviluppo umano integrale né felicità personale, per alcuno.
Oggi la comunità scientifica delle cure palliative riconosce alle religioni un ruolo importante nel dare impulso concreto a questa forma di accudimento della persona malata o morente, data la capacità delle religioni stesse di raggiungere le periferie dell’umanità, coloro che all’interno di una comunità sono sotto qualche profilo maggiormente bisognosi. Questo certamente è vero. Ma le religioni sono e fanno molto di più. Le religioni non sono solo funzionali a raggiungere una maggiore presenza delle cure palliative laddove ve ne sia il bisogno, ma sono esse, le religioni, la forza vera delle cure palliative. L’attenzione integrale alla persona non risponde a nessuna logica umana, tantomeno alla logica economicista che governa la nostra cultura contemporanea. Il frutto di tali logiche non può che essere la “cultura dello scarto”. La lettura “religiosa” dell’esistenza umana e della realtà, confessata o meno, consente di vedere e affermare un bene che va al di là e non corrisponde alla misura del
calcolo. E’ un servizio anche alla “ragione” perché “allarghi” il suo orizzonte e aiuti sostenere le persone quando sono particolarmente infragilite e apparentemente sconfitte dalla malattia. Noi siamo ben più che la nostra malattia. L’uomo e la donna sono ben più di quel che fanno. Quando non è più possibile guarire è però possibile esserci. Le cure palliative incarnano una visione dell’uomo che è profondamente umana. L’apostolo Giovanni richiama la centralità dell’amore per gli altri: “Se uno
dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello”(1Gv 4,20-21).
Fin da Gesù il tema delle guarigioni è iscritto nel cuore del Vangelo. La maggior parte dei miracoli compiuti da Gesù consiste in guarigioni. E di guarigioni sono piene ii primi passi degli apostoli. L’intera storia cristiana è legata, come da un filo rosso, dall’attenzione o meglio dall’amore per i malati. E’ all’azione dei cristiani che si deve la stessa invenzione degli ospedali. L’implementazione della dimensione sanitaria oggi diffusa nel mondo e in gran parte organizzata dai sistemi pubblici, trova le sue radici storiche proprio nella pratica della misericordia evangelica. Non solo nell’Occidente di tradizione cristiana, ma anche nei Paesi di più recente evangelizzazione, la Chiesa cattolica, così come le altre confessioni cristiane, coprono a tutt’oggi una fetta importante dell’assistenza sanitaria nelle sue più svariate forme, da centri ambulatoriali per l’assistenza di base alle persone bisognose ai centri d’eccellenza di cura e ricerca medica.
Siamo pertanto consapevoli che attorno alla fede cristiana, o da essa ispirate, muovono un’enormità di forze, materiali e spirituali, che costituiscono, di fatto, un potenziale enorme per rispondere, oggi come ieri, ai bisogni di cura e di umanità che accompagnano la malattia, soprattutto nella fase avanzata o terminale.
Ci accomuna la volontà di promuovere una “cultura palliativa”, che è “cultura della cura”, sia per rispondere alla tentazione che viene dall’eutanasia e dal suicidio assistito, sia soprattutto per fa maturare il più largamente possibile la cultura della cura dell’altro che permetta di offrire una compagnia di amore sino alla fine. Il mio auspicio è che possiamo contribuire a realizzar una maggiore attenzione nei confronti delle cure palliative da parte di tutti, a partire dai credenti di tutte le confessioni religiose.
Ringrazio sentitamente il comitato scientifico e quello organizzatore, che hanno lavorato alacremente per la realizzazione di queste giornate. Ringrazio tutti Voi qui presenti e le istituzioni che rappresentate, per aver amabilmente accettato di unirvi a questo gruppo di lavoro, portando la vostra competenza e preziosa esperienza professionale relativamente ai temi che affronteremo. In particolare, desidero ringraziare quanti ci hanno raggiunto da Oltreoceano per assicurare quello sguardo internazionale che ci consentirà di dare un respiro più ampio e di poter allargare i risultati dei nostri lavori, speriamo, al mondo intero. Sì, perché la dimensione universale della Chiesa Cattolica mi spinge a ritenere indispensabile il coinvolgimento in questo orizzonte di tutti i Paesi e direi, specialmente di quelli che, per povertà o per altre ragioni, incontrano maggiori difficoltà ad assicurare buone cure palliative a coloro che ne hanno bisogno.
Presidente della Pontificia Accademia per la Vita