Si chiama «principio di autodeterminazione» ed è il caposaldo di quelle "teorie gender" di cui qualche campione della teologia postmoderna – e postcristiana – si affanna a dimostrare l’inesistenza, accusando la Chiesa di combattere solo contro le paure del nuovo. Ma quelle idee purtroppo esistono e, ormai da tempo, si traducono in direttive politiche, scelte educative, decisioni amministrative. Sul "principio di autodeterminazione" è fondato, non a caso, il progetto di risoluzione sulla "Discriminazione nei confronti delle persone trasgender" che, dopo essere stato approvato in commissione, stamattina viene discusso dal Consiglio d’Europa. Il documento – che non si tradurrà in una legge anche se venisse approvato – invita gli Stati a sviluppare procedure, veloci e trasparenti per permettere a chi lo desidera di cambiare nome e sesso su documenti d’identità, passaporti e certificati di nascita. Secondo il testo redatto da Deborah Schembri, avvocato maltese, membro del gruppo socialista, richiedere il cambio di sesso dovrebbe diventare un’operazione semplice e agevole per tutti, indipendentemente dall’età, dalle condizioni fisiche, dalla fedina penale. Una semplice manifestazione di volontà, non un problema di interventi chirurgici. La realtà biologica – ecco un altro dei fondamenti delle "teorie gender" – totalmente subordinata all’arbitrio soggettivo, fluttuante e mutevole come un cambio d’abito. In questo quadro di totale instabilità, la relatrice della risoluzione ha però inserito un punto fermo. Anche in caso di cambio di sesso, gli Stati europei devono attrezzarsi giuridicamente per permettere alle persone trasgender di rimanere legalmente sposate. Obiettivo? Quello di «garantire che i coniugi o i figli non soffrano una perdita di diritti». Nessun riferimento a un altro tipo di sofferenza, quella relativa allo sconvolgimento psicologico che – come è facile immaginare – investe un bambino che vede il proprio papà diventare donna, o la mamma diventare uomo. Senza considerare che, con questo testo, il Consiglio d’Europa arriva a sollecitare il riconoscimento di quello che diventa, a tutti gli effetti, un matrimonio omosessuale. Ma questi sono dettagli che passano in secondo piano rispetto all’esigenza di affermare anche il rispetto lessicale per le persone trasgender. Sui documenti – è un’altra delle raccomandazioni del testo oggi al voto – occorre prevedere «una terza opzione di genere», in grado di superare il vecchio dualismo uomo-donna. E anche questo è un punto fermo del "gender". La risoluzione si spinge poi a sollecitare interventi legislativi per «rendere accessibili a tutti la riassegnazione del genere», facendo in modo che «il trattamento ormonale, chirurgico o psicologico» sia a totale carico del servizio sanitario pubblico. La risoluzione presentata da Deborah Schembri traccia anche un quadro della situazione europea in riferimento alle legislazioni dei vari Stati. «Il testo più completo e più avanzato», si legge, è quello di Malta, ma anche la Danimarca ha recentemente modificato «le procedure di riconoscimento del genere» con una scelta che «promulga per la prima volta il principio di autodeterminazione in Europa». Critiche invece all’Irlanda dove si sta discutendo un progetto di legge sul cambiamento di sesso che «non si basa sul principio di autodeterminazione» ed è quindi irrispettoso verso le persone trasgender. Ora, fermo restando il dovere di non discriminare nessuno e di accogliere la sofferenza sempre e inevitabilmente connessa ai problemi di identità sessuale, arrivare a stilare classifiche di merito in base al rispetto del "principio di autodeterminazione", sembra davvero inaccettabile.