martedì 2 luglio 2024
Non si può estendere senza limiti un concetto al centro delle regole della Corte costituzionale sulle scelte fine vita: parla la costituzionalista che fa parte del Comitato nazionale per la bioetica
I confini (indispensabili) dei “trattamenti di sostegno vitale”
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La recente sentenza della Corte di Strasburgo “Dániel Karsai v. Hungary” del 13 giugno 2024, in tema di suicidio assistito, è certamente di grande interesse per tutti i 46 Stati membri del Consiglio d’Europa, ma lo è ancor di più per l’Italia, perché sullo stesso tema e anche con riguardo ad alcuni articoli della Convenzione europea dei Diritti umani (Cedu) la Corte costituzionale sta per pronunciarsi nuovamente. La richiesta è arrivata dal gip di Firenze, per il quale l’attuale disciplina – che è uscita dalla stessa penna della Consulta con la sentenza n. 242/2019, che ha modificato l’articolo 580 del Codice penale, creando una circoscritta area di non punibilità all’interno del reato di aiuto al suicidio – sarebbe incostituzionale per contrasto con gli articoli 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione (quest’ultimo in riferimento agli articoli 8 e 14 della Cedu), dal momento che, fra le condizioni che devono sussistere affinché il reato non sia punibile, vi è anche che il paziente sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Secondo l’ordinanza del gip, subordinare l’aiuto al suicidio a quest’ultimo requisito sarebbe una compressione del diritto al rispetto della vita privata e familiare sancito dall’articolo 8 Cedu, mentre permettere il suicidio assistito solo ad alcuni malati irreversibili e sofferenti – quelli appunto sottoposti a trattamenti di sostegno vitale – sarebbe discriminatorio e quindi in contrasto con l’articolo 14 Cedu. Tali argomenti, tuttavia, sembrano infrangersi alla luce della menzionata sentenza della Corte di Strasburgo, la quale, in riferimento a un ricorso in cui erano state avanzate simili ragioni, ha dichiarato non solo che è da escludere che dall’articolo 8 della Cedu possa ricavarsi un diritto all’aiuto al suicidio, ma soprattutto che una differenza di trattamento è discriminatoria, ai sensi dell’articolo 14 della Cedu, solo quando manca una ragione giustificativa obiettiva e ragionevole ovvero una ragionevole relazione di proporzionalità fra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito. Cosa dire, allora, dell’attuale disciplina italiana?

È davvero discriminatoria? Se si richiama il ragionamento condotto dalla Corte costituzionale nella sentenza 242/2019, che ha individuato la circoscritta area di non punibilità basandosi sull’analogia fra chi, sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, può interromperli e chi, nel medesimo stato, desidera terminare più rapidamente la vita col suicidio assistito, si può dire che tale requisito abbia una ragione giustificativa obiettiva. Fra l’altro è quello che pensa la stessa Corte di Strasburgo. In un passaggio della citata sentenza ha infatti affermato che fornire l’aiuto medico al suicidio a pazienti che non dipendono dai supporti vitali può dare luogo a ulteriori sfide e al rischio di abusi («provision of Pad in respect of patients who are not dependent on life support may give rise to further challenges and a risk of abuse», paragrafo 150: «La fornitura di Morte medicalmente assistita a pazienti che non dipendono dal supporto vitale può dare luogo a ulteriori questioni e a un rischio di abuso»). Ne consegue che, per evitare abusi e rischi a danno delle persone vulnerabili, non è irragionevole fornire l’aiuto medico al suicidio solo a quei pazienti sofferenti che siano altresì sottoposti a trattamento di sostegno vitale. Diversamente, del resto, la circoscritta area di non punibilità di cui ha ragionato la Corte costituzionale diventerebbe un’area molto vasta perché diverrebbero “suicidabili” tutte le persone sofferenti con una malattia irreversibile, purché capaci di prendere decisioni libere e consapevoli.

Altrettanto accadrebbe se i trattamenti di sostegno vitale fossero intesi in modo indeterminato, fino a ricomprendere qualsiasi assistenza alla persona, come onestamente riconosce il gip di Firenze: non ogni “aiuto a vivere” può considerarsi trattamento sanitario (sul punto sarà a breve pubblicato anche un parere del Comitato nazionale di Bioetica, su richiesta del Comitato etico territoriale dell’Umbria). Tutto questo non significa affatto ignorare o sminuire la sofferenza delle persone, come ha affermato ancora Strasburgo, nel considerare la gravità della malattia del paziente che aveva sollevato il ricorso, affetto da Sla, ma riconoscere che è probabilmente parte della condizione umana che la scienza medica non sarà forse mai completamente capace di eliminare tutti gli aspetti della sofferenza di chi è malato terminale. Di fronte a situazioni di elevata vulnerabilità occorre allora, da parte delle autorità degli Stati membri, un approccio essenzialmente umano nel trattare queste situazioni. Un approccio che, secondo i giudici europei, deve necessariamente includere cure palliative contrassegnate da compassione e da alti standard medici. Un auspicio che, alla luce dei principi costituzionali e in particolare del principio personalista e di solidarietà, non si può che condividere.

La fase terminale della vita, a differenza di quanti si preoccupano di avvicinarla sempre più a una procedura di morte ben regolata e asettica, è uno spazio non privo di senso nel quale ogni uomo è destinato a entrare con la propria fragilità e con il proprio bagaglio esistenziale.
* Professoressa ordinariadi Diritto costituzionale,componente del Comitato nazionale per la bioetica

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