Completamente diversa è la situazione se si pensa a una fecondazione eterologa, dove le variabili in gioco sono molteplici ed estremamente complesse. La fecondazione omologa, pur con le sue complessità, permette l’incontro del principio vitale di quel padre e di quella madre per generare, scavalcando, attraverso la tecnica, gli ostacoli che si frappongono a un progetto che già la relazione prevede e contiene in sé. Nella fecondazione eterologa invece queste premesse non sono presenti: non c’è l’incontro, seppure tecnicamente mediato, tra un uomo-padre e una donna-madre; non c’è nemmeno l’accoglienza generosa di un figlio non tuo, come nell’adozione. Quello che accade assomiglia invece al procurarsi (donati o no) i pezzi per fare un bambino, producendo una vita che non nasce dall’eccedenza di amore reciproco (ti rendo padre/madre attraverso il dono di qualcosa che è mio) o di amore condiviso (ti rendo padre/madre accettando con te un bambino non nostro), ma solo da un desiderio di autorealizzazione.La cosa che trovo più grave nel modo di discutere intorno alle tecniche riproduttive è la terribile sensazione di un’incolmabile distanza tra il linguaggio asettico delle procedure e la vita vera, linguaggio che allontana la percezione esatta di ciò di cui davvero si tratta: del fatto cioè che ogni nascita, ma prima ancora ogni intenzione o pensiero generativo, danno il via a singole storie che coinvolgeranno da quel momento e per sempre delle persone concrete, singole, irripetibili, destinate a creare tra loro lo specialissimo legame che caratterizza l’essere un padre, una madre, un figlio.
Il modo in cui affrontiamo l’argomento ci allontana dalla consapevolezza indispensabile che la forma di quel legame, le implicazioni relazionali, le possibilità di sviluppo di quel bambino e di quei rapporti non sono scollegate, come sembriamo pensare, dal modo in cui quella vita ha inizio, è pensata, è accolta. Non solo quel bambino cercherà con pieno diritto le sue origini, ma anche il genitore non potrà che spiare continuamente in lui i segni della sua provenienza, e nelle ambivalenze ineludibili della relazione genitore-figlio avrà sempre un ruolo il sospetto di una estraneità. Questo sospetto è elemento certamente presente anche nell’adozione, ma si tratta di un elemento pienamente consapevole, e la sua elaborazione condivisa nella coppia è premessa indispensabile alla decisione adottiva. Nella situazione di fecondazione eterologa invece l’ambiguità è tale da rendere difficilmente elaborabile questo passaggio cruciale.È inevitabile allora chiedersi cosa possa spingere una coppia alla sfida onnipotente di un bambino fabbricato, quando potrebbe accogliere un bambino già nato che ha bisogno di venire accolto. Personalmente, non posso sfuggire alla percezione di uno sgradevole sottinteso: che esista finalmente un modo per avere il figlio desiderato, evitando le tante fatiche dell’adozione e insieme le preoccupazioni inespresse che derivano dalla origine ignota del bambino da adottare; che esista un modo per avere un figlio che dia più "garanzie", perché costruito con materia prima selezionata e certificata da centri specializzati. Come se un figlio così potesse essere "più tuo" rispetto a un bambino adottato.