Mariella Enoc con una piccola paziente a Damasco
Alfie può insegnare tanto. Un angelo così piccolo, infatti, dimostra che «ogni bambino, in ogni parte del mondo, merita il nostro impegno, la nostra attenzione e la nostra umanità». La presidente dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, Mariella Enoc, ha saputo la notizia della morte del bimbo inglese in Siria, dove è in missione con i medici dell’ospedale per proseguire nella formazione dei dottori rimasti nel Paese. Ed è da qui che lancia un appello «alle istituzioni, europee e internazionali, perché si faccia un accordo tra scienziati, clinici e famiglie per fare, se non un protocollo, almeno delle linee guida su come muoversi in queste situazioni».
Cosa le ha lasciato questa storia?
Quella di Alfie è stata una vicenda, un po’ come quella di Charlie Gard, iniziata in modo secondo me non corretto, perché è diventata una battaglia troppo ideologica e violenta. Da qui il mio appello a lavorare insieme per un percorso condiviso che integri la dimensione scientifica e quella umana. L’altro appello è alla nostra sanità, perché provi ad aprirsi all’accoglienza di questi casi, certo molto onerosi da sostenere. Ho sentito posizioni secondo cui non è giusto privare i servizi sanitari di risorse che possono servire a far guarire. Noi difendiamo un’altra cultura: non scartare nessuno, come dice il Papa, dagli stati vegetativi ai bambini in queste condizioni, agli anziani con l’Alzheimer. Dobbiamo trovare anche noi, con coraggio e profezia, nuovi modi di essere per loro.
Si rimprovera qualcosa?
Sono stata coinvolta personalmente dalla vicenda di Alfie e ora provo un grande dolore per la morte di questo bambino, tanto amato da genitori coraggiosi che sono contenta di aver conosciuto. Avremmo voluto muoverci prima, però, quando non c’era il clamore. Lo abbiamo fatto da luglio, ma non avevamo gli interlocutori adatti. Se mi rimprovero qualcosa è di non aver cercato gli interlocutori giusti, con cui parlare in modo sereno e disteso. Forse sarebbe finita così lo stesso – difficile dirlo – però credo che tutto il possibile vada fatto sempre, almeno per rispetto della famiglia. Non si può andare avanti a creare il caso, dobbiamo fare qualcosa prima con maggiore pacatezza, riflessione, profondità. Prendiamo sempre delle posizioni, ma bisogna anche cercare di fare oltre che dire. Ora le parlo da Homs, in Siria, ad esempio. Ed è veramente una distruzione unica. Non le posso raccontare che cosa sto vedendo. Anche stanotte a Damasco sono caduti dei razzi e non posso non pensare alle persone rimaste ferite e ai bambini.
Qual è il motivo del viaggio in Siria?
Con un gruppo di nostri pediatri, dopo un accordo con l’Oms, stiamo formando i medici che sono rimasti qui. Ho appena firmato un accordo a Damasco con il ministro per l’Alta formazione per consentire ai medici di venire da noi in Italia, per vedere dal vivo gli approcci sui diversi casi. Poi cercheremo di lavorare confrontandoci su interventi particolarmente delicati con una piattaforma telematica. Adesso sto andando ad Aleppo per concordare altra formazione per i medici. Stiamo insomma costruendo un ponte tra Aleppo, Damasco e Roma. Facciamo cose che forse non si vedono molto, ma l’importante è costruire un futuro, quando questo Paese sarà finalmente in pace, cominciando adesso che è in guerra.
Quali sono gli altri fronti in cui siete impegnati?
Siamo presenti in nove Paesi e molti altri ce lo stanno chiedendo. In Giordania oltre alla preparazione dei medici – a seguito di un accordo con Unhcr – operiamo bambini siriani nel campo profughi di Karak. Aiutiamo nella formazione un grande ospedale cinese a Hebei e un centro riabilitativo in Russia. Abbiamo progetti nella Repubblica Centrafricana, dove a luglio sarà completata la ristrutturazione dell’ospedale visitato dal Papa a Bangui, facendo formazione dei medici e in università. Presto andrò in Tanzania dove c’è un altro progetto su neurologia e riabilitazione. Lì per la prima volta nascerà, in collaborazione con noi, un piccolo centro di ricerca sull’autismo. Poi ancora la Georgia e la Cambogia. In questi Paesi siamo presenti trasmettendo ai medici tutto il nostro sapere; noi non facciamo opere, portiamo cultura e formazione.
Da lì, come da altri Stati, molti bambini arrivano anche al Bambino Gesù di Roma.
In questo momento abbiamo cinque bimbi siriani, con patologie molto gravi e ferite da guerra. Nel 2016 abbiamo avuto 60 piccoli accolti con gli accordi di assistenza internazionale, ma quest’anno prevediamo di arrivare a oltre 100.
Cosa prova quando li vede tornare a casa?
Sento che, pur essendo una goccia, qualcosa facciamo. Penso a Wafaa, una bimba siriana in attesa al Bambino Gesù del quarto intervento al volto sfigurato da una bomba. Un giorno mi ha detto: «Sono una bambina, allora perché devo avere tanto male?» Capisce perché sento il dovere d’investire nella ricerca scientifica – è il futuro per la salute – e nell’accoglienza che tiene anche conto di continuare a curare questi bambini nel loro Paese, a cui spesso forniamo farmaci e presidi. Wafaa ora ha imparato qualche parola in italiano e una settimana fa mi ha sussurrato: «Ti voglio bene nonna». Beh, questo per me dice tutto.