Se al primo posto c’è il diritto alla vita, come si accorda questo valore primario con il diritto a partorire in anonimato e con quello di conoscere le proprie origini biologiche? Il presidente del Movimento per la vita, Gian Luigi Gigli, lancia una proposta: «Dobbiamo distinguere tra situazioni diverse. Nel caso del parto in anonimato deve prevalere la richiesta della mamma, considerando che queste nascite sono spesso a rischio aborto o infanticidio. Nel caso delle altre adozioni il diritto alla conoscenza dovrebbe essere bilanciato con il diritto alla riservatezza. Nel caso dell’eterologa potrebbe invece prevalere il diritto alla conoscenza delle proprie origini». Gigli parte dai casi terribili di questi giorni di cui parliamo nel distico sopra.
Cosa propone il Movimento per la Vita?Dobbiamo aumentare il numero delle culle per la vita. Oggi sono una cinquantina. Ce ne vorrebbero almeno due o trecento, distribuite su tutto il territorio nazionale, in luoghi riservati, ma nell’ambito di strutture sanitarie di rilievo regionale. Abbiamo sottoposto l’idea al ministro Lorenzin e a Renzi. E siamo in attesa risposta.
Ma la legge consente già il parto anonimo in ospedale. Ritiene che questa possibilità sia conosciuta a sufficienza?Assolutamente no. Occorrono iniziative d’informazione televisiva tipo "pubblicità progresso" e diffusione di materiale informativo nelle Asl. Le campagne dovrebbero essere in varie lingue per avvicinare le mamme straniere, che sono le più a rischio, ma spesso ignorano non solo la nostra lingua, ma anche le nostre leggi.
In settimana arriva in Parlamento la legge sul diritto per i figli adottati di conoscere le proprie origini. Perché distinguere tra i figli nati da parto anonimo, bambini adottati e nati con l’eterologa?Perché sono problemi diversi e vanno trattati diversamente. Se una persona fa nascere un bambino ricorrendo ai gameti di un genitore diverso da sé o dal proprio partner, è giusto riconoscere a quel bambino, diventato adulto, il diritto di conoscere i propri genitori biologici. Qui non è a rischio il diritto alla vita e la diversità biologica è stata cercata. Anzi, la trasparenza potrebbe essere un deterrente alla compravendita dei gameti e all’uso dell’eterologa a fini eugenetici.
Non ritiene che anche i figli adottati abbiano lo stesso diritto?Per gli adottati credo che la scelta più saggia sia quella di creare una sorta di "lista d’attesa" parallela in cui si potrebbero iscriversi da un lato chi desidera conoscere le proprie origini e dall’altro le madri che hanno scelto di uscire dall’anonimato, permettendo alle due richieste di incontrarsi, ma solo quando arrivano a coincidere. La proposta di legge in esame prevede invece che alle madri venga chiesto se sono disposte a rinunciare all’anonimato, ma rischia di essere emotivamente dirompente e capace di sconvolgere le relazioni familiari nel frattempo ricostituite. Queste donne dovrebbero però essere informate che esiste la possibilità di revocare la richiesta dell’anonimato.
L’associazione dei figli adottivi che si battono per scoprire le proprie origini sostiene però che, nei Paesi dove vigono leggi simili, non sono aumentati né infanticidi né aborti. Non sono in grado di contestare questi dati, ma il buon senso mi fa credere che se una donna sapesse di poter essere rintracciata dopo un parto anonimo, magari a distanza di tanti anni, il rischio dell’aborto o dell’infanticidio potrebbe aumentare. Non dimentichiamo che in alcune culture un figlio nato fuori dal matrimonio può ancora portare all’emarginazione sociale. Noi abbiamo il dovere di anteporre a ogni altra considerazione il diritto alla vita del nascituro e quello della donna a partorire in condizioni di sicurezza.
È lo stesso individuo però, che diventato adulto vuole conoscere la propria madre. Non è una richiesta profondamente umana?Sì, gli aspetti esistenziali da non sottovalutare sono diversi. Dobbiamo, con grande delicatezza e sensibilità, senza coinvolgere persone terze, incrociare i desideri di madre e figlio. Si tratta di trovare la modalità più rispettosa per tutti.