mercoledì 19 giugno 2024
Udienza pubblica della Consulta per decidere sulla ìnterpretazione del criterio dei "trattamenti di sostegno vitale". Sentenza attesa nelle prossime settimane
Il Palazzo della Consulta, sede della Corte costituzionale

Il Palazzo della Consulta, sede della Corte costituzionale

COMMENTA E CONDIVIDI

È attesa nelle prossime settimane la decisione della Corte costituzionale su un dei quattro criteri per la depenalizzazione dell’aiuto al suicidio stabiliti con i suoi recenti verdetti in materia. Nell'udienza pubblica del 19 giugno si sono confrontate le tesi dell'Avvocatura dello Stato e dell'Associazione radicale Luca Coscioni. L'intervento della Consulta si è reso necessario non solo perla questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Firenze su un caso specifico ma anche per il moltiplicarsi di interpretazioni (spesso improprie) di sentenze e ordinanze precedenti, di casi locali, di spinte per leggi regionali, nell’attesa di un intervento del legislatore nazionale – il solo competente su materie come il diritto alla vita – che tuttavia non potrebbe che essere orientato al più largo consenso possibile e non certo a colpi di maggioranza, quale che sia. Per aver chiari i termini giuridici e clinici di una questione più che mai delicata (e sulla quale, va ricordato, non è vero che ci sia “vuoto legislativo”, come si ripete, perché l’Italia ha già due leggi sul fine vita: la 38/2010 sul diritto alle cure palliative, alla terapia del dolore e alla sedazione profonda; e la 219 del 2017 sulle Disposizioni anticipate di trattamento) è assai utile leggere gli interventi su Avvenire di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte, e di Marcello Ricciuti, medico palliativista. E questa scheda tecnica di Marcello Palmieri sul punto cui è arrivata la giurisprudenza della Corte costituzionale prima del nuovo verdetto, che potrebbe essere di rigetto, di interpretazione o di accoglimento parziale o totale.

Alla vigilia di una nuova pronuncia della Consulta sul fine vita, questa volta tesa a chiarire se per «sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale» – una tra le condizioni per poter accedere al suicidio assistito – debba intendersi per forza la dipendenza da un macchinario o se sia sufficiente essere sottoposti a una terapia la cui sospensione provocherebbe in tempi anche non brevi la morte, è utile fare il punto su cosa abbia finora detto la giurisprudenza costituzionale su questa materia.

La prima pronuncia da analizzare è certamente l’ordinanza 207 del 2018, che nella sostanza ha aperto in Italia al suicidio assistito. Prima di allora, l’articolo 580 del Codice penale puniva sempre e comunque colui che aiutava un’altra persona a compiere l’ultimo tragico gesto. Da quel momento in avanti, invece, i giudici costituzionali hanno delineato alcune condizioni, la cui simultanea presenza avrebbe aperto una finestra di non punibilità nella fino ad allora granitica norma penale. Nella sostanza, dunque, la Consulta ha ritenuto di mandare esente da responsabilità penale il medico in servizio presso una struttura pubblica che agevolasse nel darsi la morte una persona «affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Per la verità, la Corte d’assise di Milano, che aveva investito la Consulta di questa decisione, riteneva l’articolo 580 del Codice penale totalmente illegittimo. Da questa visione, però, la Consulta si era subito smarcata, affermando nell’ordinanza che il diritto all’autodeterminazione non avrebbe potuto essere assoluto. Se così fosse, avvertiva il provvedimento, si sarebbero creati «scenari gravidi di pericoli per la vita delle persone in situazioni di vulnerabilità» e si sarebbe anche corso il rischio che le strutture sanitarie rinunciassero prematuramente «a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua». Anzi, suggeriva la Consulta, «il coinvolgimento in un percorso di cure palliative dovrebbe costituire [...] un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo». Leggasi del suicidio. Come noto, l’ordinanza terminava con l’invito al Parlamento a varare una legge che rispondesse a questi principi, mentre la Consulta – momentaneamente sospesa ogni pronuncia sul tema – aggiornava la seduta al 24 settembre dell’anno successivo, per analizzare l’eventuale lavoro effettuato dalle Camere. Giunta quella data, a Montecitorio e Palazzo Madama era un nulla di fatto, dunque la Corte non poteva più esimersi dal dire la sua.

Scaturisce da qui la sentenza 242/2019, che – superando nella forma la precedente ordinanza – ha nella sostanza integralmente confermato la visione dell’anno precedente, ma con qualche importante chiarimento. Questa pronuncia, infatti, ha preso in considerazione anche «il tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario», precisando che «la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici». La questione è di vitale importanza, perché dirimente nel chiarire come la Consulta non abbia voluto creare un diritto – in capo ai pazienti che rispondono alle condizioni di cui all’ordinanza del 2018 –, a ottenere la morte, avendo piuttosto i giudici ritenuto di non punire i medici che, secondo la loro coscienza, avrebbero di lì in avanti ritenuto di avvicinare alla morte volontaria i malati terminali considerati dalla Corte costituzionale. Gettata luce sul letterale intento del Consulta, appare evidente come abbia travisato questo pensiero chi – successivamente – ha contestato le decisioni di quei Servizi sanitari regionali che hanno ritenuto di non accogliere le richieste suicidarie di loro pazienti.

E che il diritto alla vita (e non già quello di morire) sia tutelato dalla nostra Carta fondamentale i giudici costituzionali l’hanno ribadito con la sentenza 50/2022, che ha dichiarato inammissibile la proposta referendaria di abolire nella sostanza l’articolo 579 del Codice civile, quello che punisce l’omicidio del consenziente (e dunque vieta l’eutanasia). Richiamando infatti sue precedenti pronunce, la Corte ha ribadito che «il diritto alla vita», definito «cardinale [...], è da iscriversi tra i diritti inviolabili», in quanto «presupposto per l’esercizio di tutti gli altri», e citando quanto affermato nell’ordinanza 207/2018 ha definito di «perdurante attualità» la protezione del «diritto alla vita», deprecando la situazione in cui – in assenza di solide protezioni normative – potrebbero optare per la morte persone caratterizzate da «situazioni, anche solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate». Da questo quadro risulta evidente come il tentativo di scardinare oggi una delle quattro condizioni (estreme) poste dalla Consulta per poter accedere al suicidio assistito, e cioè la sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale, tradisce il filo conduttore che lega tra loro le tre pronunce della Consulta qui richiamate.

D’altronde, nel pronunciare l’ordinanza prima e la sentenza poi sul “caso Cappato” i giudici costituzionali avevano davanti agli occhi Fabiano Antoniani, in arte “dj Fabo”, divenuto cieco e tetraplegico a seguito di un incidente stradale, totalmente dipendente da un macchinario per la respirazione e l’evacuazione. Una situazione completamente diversa da chi, oggi, vorrebbe equiparare a questo gravoso condizionamento ogni trattamento, farmaco o terapia salvavita.

Abbonati alla newsletter settimanale gratuita di è vita. CLICCA QUI

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: