La morte di Charlie Gard, il 28 luglio, in un hospice pediatrico inglese al termine di una drammatica vicenda clinica e giudiziaria che ha visto opporsi i genitori Chris e Connie alla decisione dei medici del Great Ormond Street Hospital di Londra, lungi dall’aver archiviato il dibattito sulla sorte del bambino che il 4 agosto avrebbe compiuto un anno sembra invece aver sollevato nuovi interrogativi sulla dignità della vita, i doveri della scienza, le responsabilità e i limiti della medicina, il ruolo dell’opinione pubblica in questioni di tale complessità etica e clinica. È come se con la sua silenziosa e brevissima vita, e ancor più con la sua morte, Charlie ci avesse consegnato una serie di grandi domande, affrontate in queste settimane da “Avvenire”, e che oggi vedono aggiungersi alle voci che si sono già espresse (tutte reperibili su questo sito www.avvenire.it) altre due significative e documentate opinioni.
Ora che il clamore mediatico sulla vicenda del piccolo Charlie Gard si va assopendo, è possibile riflettere con maggior pacatezza sulla portata strettamente bioetica del caso. Il dramma vissuto da Charlie, dai suoi genitori e (perché negarlo?) dai magistrati e da tutti i medici che, in diverso modo, si sono presi cura di lui da una parte ha confermato in modo eclatante alcuni princìpi bioetici fondamentali, che è doveroso ribadire con forza, ma dall’altra ha oscurato un altro principio bioetico fondamentale, che è altrettanto doveroso ribadire con la stessa forza.
Cominciamo ad analizzare, sia pur brevemente, i princìpi che la vicenda di Charlie ha confermato e che noi tutti dobbiamo ribadire, senza stancarci mai. Primo tra tutti, è quello che concerne la missione del medico e di ogni altro operatore sanitario: agire, senza stancarsi mai, a favore della vita. Non spetta al medico e ai suoi collaboratori (come non spetta a nessun altro) valutare la qualità della vita del malato che gli viene affidato: respingere questa tentazione (davvero diabolica) che si ripresenta costantemente nei casi estremi e più tragici è la prima parola dell’etica medica. Gli altri princìpi che la tristissima vicenda di Charlie ci induce a ribadire sono due: quello dell’alleanza terapeutica tra medico e malato, alleanza nella quale rientrano a pieno titolo i genitori dei malati minorenni e (per allargare, come è giusto fare, il discorso) i familiari dei malati per qualunque motivo incapaci, e quello del divieto assoluto dell’abbandono terapeutico, preludio a quella «cultura dello scarto» sulla quale papa Francesco è intervenuto tante volte e con tanta forza, denunciandone la pervasività e gli orrori.
Veniamo ora al principio bioetico che la vicenda Charlie ha obiettivamente oscurato. È quello del no, coraggioso e radicale, che va sempre opposto all’accanimento terapeutico. Troppi, a mio parere, tra coloro che si sono battuti per difendere la vita di Charlie hanno eluso questa questione.
Non voglio entrare nello specifico della vicenda e prendere definitiva posizione in merito. Mi mancano le necessarie informazioni per esprimere un giudizio completamente fondato. Per amore di chiarezza, però, in base ai soli e insufficienti dati in mio possesso – quelli che sono stati riportati dai giornali a partire (e con tutta la possibile ricchezza di particolari disponibili) da Avvenire –, sul fondamento della mia esperienza pluriennale di membro e presidente di Comitati di Bioetica ospedalieri e del Comitato nazionale per la Bioetica, sapendo che non pochi sulla base delle stesse informazioni incomplete valutano diversamente, sono orientato a pensare che il povero Charlie fosse sottoposto da mesi e mesi a un ingiustificabile accanimento terapeutico. Quello che mi sembra indubitabile è che sia mancata nell’opinione pubblica, che ha seguito con tanta partecipazione e apprensione la vicenda di Charlie, un’adeguata consapevolezza di che cosa sia l’accanimento, del perché esso è condannato dal Magistero della Chiesa, oltre che dai bioeticisti dei più diversi orientamenti, e del perché sia rischiosissimo non dare a questo paradigma il rilievo che merita.
Per accanimento intendiamo una pratica medica futile, sproporzionata rispetto alla situazione clinica del malato, avventurosamente sperimentale, capace di generare nel paziente più sofferenze che benefici, incapace di sottrarlo all’inevitabile progredire letale della sua patologia, supportata da tecnologie invasive, gravemente onerose e da un uso di macchine capaci sì di sostituire funzioni biologiche assolutamente compromesse (cardiache, respiratorie, renali) e di garantire quindi la sopravvivenza del malato, ma non di riportarle a una loro normale, anche se ridotta, funzionalità. Il no all’accanimento terapeutico è un no a un uso spersonalizzato della medicina, è il no a una medicina che anziché valutare il bene del malato nel suo complesso si concentra esclusivamente sul funzionamento dei suoi singoli organi e che riduce in definitiva il corpo del paziente a una macchina di straordinaria complessità, da curare non nel suo insieme ma "pezzo per pezzo". La medicina di oggi tende inevitabilmente ad assumere un profilo freddamente tecnologico e solo un no deciso all’accanimento terapeutico può salvarla da questo rischio. Sarebbe davvero una tragedia, associata a tragedia, se il caso Charlie, oltre a rafforzare i nobili sentimenti bioetici, dovesse contribuire alla crisi di un paradigma, come quello del doveroso rifiuto dell’accanimemento terapeutico, di assoluto rilievo bioetico.
La decisione di sospendere l’accanimento terapeutico è sempre tragica, perché, nelle situazioni di fine vita, accelera la morte del malato. Ma non si tratta di una decisione eutanasica, come è esplicitamente chiarito anche nell’Evangelium vitae e in altri documenti del Magistero della Chiesa. È la malattia che porta il paziente alla morte, non la decisione del medico di sospendere un trattamento ormai inappropriato e senza speranza. Né è lecito, quando si sospende una pratica di accanimento, parlare di «abbandono» del malato. Attaccare un malato, senza speranza di miglioramento alcuno, totalmente privo di coscienza (e senza alcuna speranza di recuperarla), a macchine incapaci di guarirlo ma in grado solo di far funzionare meccanicamente il suo cuore, i suoi polmoni, i suoi reni, il suo metabolismo, è davvero la forma di abbandono più disumanizzante, perché nascosta dietro l’arroganza della tecnologia.