lunedì 14 agosto 2017
Riflessioni sui temi proposti dal caso del bimbo inglese che ha commosso il mondo. L'intuizione di René Girard e i miti imposti da cultura e mass media
«Qualità della vita», un culto che esige vitttime
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La morte di Charlie Gard, il 28 luglio, in un hospice pediatrico inglese al termine di una drammatica vicenda clinica e giudiziaria che ha visto opporsi i genitori Chris e Connie alla decisione dei medici del Great Ormond Street Hospital di Londra, lungi dall’aver archiviato il dibattito sulla sorte del bambino che il 4 agosto avrebbe compiuto un anno sembra invece aver sollevato nuovi interrogativi sulla dignità della vita, i doveri della scienza, le responsabilità e i limiti della medicina, il ruolo dell’opinione pubblica in questioni di tale complessità etica e clinica. È come se con la sua silenziosa e brevissima vita, e ancor più con la sua morte, Charlie ci avesse consegnato una serie di grandi domande, affrontate in queste settimane da “Avvenire”, e che oggi vedono aggiungersi alle voci che si sono già espresse (tutte reperibili su questo sito www.avvenire.it) altre due significative e documentate opinioni.

>>> Oltre a questa riflessione di Gianfranco Marcelli leggi anche quella di Francesco D'Agostino CLICCANDO QUI <<<


Se fosse ancora tra noi, sul caso del piccolo Charlie Gard potrebbe oggi esprimere qualche riflessione illuminante, e anche inquietante, il grande antropologo franco-americano René Girard, scomparso nell’autunno del 2015. La morte forzata del bambino inglese, voluta a ogni costo dalle autorità sanitarie e dalla magistratura «nel suo migliore interesse», sembra infatti poter rientrare agevolmente nello schema interpretativo del sacrificio vittimario, elaborato dall’autore di La violenza e il sacro quasi cinquant’anni fa, come evento all’origine e come alimento nel tempo delle religioni primitive. Sia pure con tutta la prudenza intellettuale che un simile esercizio richiede, vale dunque la pena di provare a rileggere l’intera vicenda attraverso il prisma di lettura girardiano.


Da tempo e da tante parti si levano allarmi e denunce contro la tendenza a voler imporre dall’alto una sorta di nuovo "culto" della qualità della vita. Si pensi all’aborto, da considerare pressoché obbligatorio al sorgere del minimo sospetto di rischio genetico. O all’eutanasia come logico e compassionevole intervento per eliminare ogni genere di sofferenza, fisica o psicologica, presente o più o meno fondatamente incombente. Sul terreno della prassi, questa cultura che papa Francesco ha etichettato «dello scarto» si sta diffondendo a macchia d’olio nei comportamenti e nelle legislazioni di molti Paesi, occidentali in primis, sempre più intolleranti verso chi dissente o prova ad andare controcorrente.


La straziante vicenda londinese, tuttavia, avendo registrato l’intervento della giustizia nazionale e perfino di quella sovrastatuale competente in materia di diritti umani, sembra segnare un forte discrimine simbolico, che proprio Girard avrebbe forse colto con immediatezza. È noto che la sua teoria nasce da un’intuizione sulla genesi della violenza fra gli individui e nelle società, suggerita prima dallo studio dei grandi romanzieri moderni e poi dalla rilettura dei miti greci trasmessi dagli autori tragici. Alla base di tutto c’è il desiderio (quasi sempre inconscio) di essere come l’altro o di possedere ciò che l’altro già detiene: è il cosiddetto «desiderio mimetico». Ne consegue la nascita di una rivalità, che presto o tardi scatena la violenza e si estende dai rapporti individuali a quelli sociali. Fino al punto di dover imporre un intervento esterno nel tentativo, grazie spesso al sacrificio di una vittima (il «capro espiatorio»), di ristabilire la pace e l’ordine nella comunità.


Cosa c’entra con tutto questo il caso di Charlie? In apparenza poco, ma la genialità dell’analisi girardiana consiste proprio nell’aver individuato un gran numero di indizi rivelatori, attraverso capolavori letterari, leggende e vicende storiche reali, oltre che mediante i testi della Rivelazione giudeo-cristiana. E in effetti oggi il desiderio e la conseguente rivalità mimetica, se appena vi si riflette, sono divenuti quasi una tacita legge universale, grazie al diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa e di internet, al poter quindi vedere ciò che si fa, si dice e si possiede in qualsiasi altra parte del mondo. Tutti quindi, consapevoli o meno, vogliamo essere e/o avere ciò che ci sembra non siamo né abbiamo.


In particolare, attraverso i miti internazionali della bellezza, della salute e del benessere, tutti condividiamo pulsioni a vivere di più, meglio e con più cose. Il virus mimetico, e di conseguenza rivalitario, è sottilmente penetrato nell’umanità, si direbbe a livello di pandemia. È la globalizzazione del desiderio che, applicata alla qualità della vita, rende insopportabile ogni standard inferiore al massimo possibile.


Ma perché allora prendersela con un bebè di pochi mesi, gravemente disabile e destinato comunque abbastanza presto a uscire di scena togliendo il "disturbo"? Qui è il punto nodale che ritengo vada colto. L’opposizione tenace dei genitori inglesi e la stessa "resistenza" del piccolo (dimostrata fino all’ultimo dalla capacità di restare in vita oltre il doppio del tempo stimato dopo la rimozione del respiratore artificiale) hanno fatto assumere a Charlie un ruolo analogo a quello del capro espiatorio in chiave biblica, sottolineato da Girard alla luce delle figure di Isaia, di Giobbe e soprattutto di Gesù: non più la vittima necessaria e comunque "colpevole" per il bene del gruppo, ma l’innocente che denuncia con il suo stesso esistere la violenza sottesa al comportamento della massa.


In un certo senso, a un livello profondo e ben superiore alle strutture polemiche che sono state costruite attorno al caso Charlie, quello consumato tra le mura dell’ospedale londinese può ben assumere, per molti e soprattutto per molti sacerdoti di riti mediatici, la valenza di «sacrificio fondativo» di una nuova religione, quella della vita buona, bella e sana. Il sigillo apposto all’evento dal convergere di diversi e ripetuti pronunciamenti giudiziari gli conferisce, appunto, una portata simbolica che finora non era emersa in nessun altro "caso" analogo o comunque accostabile. In quello di Eluana Englaro, per esempio, la pretesa di far finire la vita di una disabile grave (non di un ammalato come Charlie) si basava sulla volontà della vittima, tanto presunta quanto indimostrata e indimostrabile nonostante artifici cronachistici e giudiziari.


Ma forse la chiave di lettura più importante che Girard suggerirebbe è quella dell’inutilità del sacrificio imposto a Charlie e ai suoi genitori, della sua incapacità "strutturale" a risolvere la contraddizione originaria. In una delle sue ultime interviste, il grande studioso avignonese sottolineava che nei Vangeli il tentativo di fare del Nazareno il capro espiatorio fallisce. «È meglio che un uomo solo muoia per la salvezza del popolo» spiegava Caifa al Sinedrio. E Pilato prese la palla al balzo per cercare di chiudere la vertenza fra romani ed ebrei. Ma il tentativo andrà a vuoto e non ci sarà riconciliazione. Finché l’uomo non affronterà a viso aperto la vera sfida identitaria, quella di una rapporto sano e non più rivalitario con "l’altro da sé", resterà drammaticamente incapace di frenare gli istinti violenti ai quali il desiderio mimetico lo espone senza sosta.

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