2015: l'allora ct della Nazionale di calcio Antonio Conte partecipa all'Ice Bucket Challenge - Ansa
Una doccia fredda che risvegli le coscienze e muova la mano a donare. Geniale, come gran parte delle soluzioni più semplici, la sfida denominata “Ice Bucket Challenge”, promossa dieci anni fa dalla Als Association, l’organizzazione americana per la lotta alla Sclerosi laterale amiotrofica, ha innescato un movimento globale, partito dai social e allargato alla vita reale, che ha permesso la raccolta in un solo anno di 115 milioni di dollari destinati alla ricerca.
Ma non è soltanto la questione economica a emergere dalla provocazione di coloro che si gettavano addosso un secchio di acqua gelata e poi donavano all’Associazione i fondi per sconfiggere una malattia rara considerata invincibile. A prendere consistenza è stato anche l’aspetto etico, condiviso da persone famose e comuni, e la convinzione che dando una mano qualcosa si possa smuovere. E qualcosa di importante si è mosso, perché, poche settimane fa la Commissione europea ha approvato il primo farmaco, il tofersen, in grado di arrestare la Sla associata alla mutazione di un gene, il Sod1-Sla. «È una svolta storica e non è una coincidenza che il risultato sia avvenuto in questi anni perché c’è stato un maggiore coinvolgimento da parte di tutti», commenta Mario Sabatelli, direttore clinico del Centro Clinico NeMO area adulti, presso il Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs di Roma e presidente della Commissione medico-scientifica dell’Associazione italiana Sla (AiSla).Da Stoccolma, dove è in corso il congresso della European network to cure Als, il professore testimonia l’entusiasmo che si respira nell’ambiente dei ricercatori dedicati a questa malattia di cui si celebra domani la Giornata mondiale. «Prima – rammenta Sabatelli – c’era una cappa che gravava su di noi, ma il fatto che siamo riusciti a trovare un farmaco, sebbene per un piccolo gruppo di pazienti, ha squarciato quel velo di imbattibilità. Anche la parte psicologica per noi ricercatori fa la differenza, perché ora tutti sono più impegnati. Abbiamo appena pubblicato uno studio dei Centri NeMO che mostra l’efficacia della terapia, speriamo possa avere un effetto domino per la ricerca su tutte le altre forme di Sla. Da quarant’anni studio questa malattia eterogenea e la sensazione fino a ieri era di sconfitta unita al senso di incapacità quando si guarda in faccia i pazienti. Ora possiamo dare speranza».
Anni prima della pandemia, «l’Ice Bucket – osserva Fulvia Massimelli, presidente nazionale di AiSla – ci ha insegnato l’importanza della consapevolezza e del valore di essere (e rimanere) una comunità coesa, perché i problemi si possono superare soltanto insieme». La fiducia nel terzo settore non si basa solo sulla trasparenza nell’uso dei fondi ma anche sulla consapevolezza che «ogni euro donato ha un effetto moltiplicatore sulla società. È importante parlare di Sla e far comprende quanto sia impattante per tutta la famiglia e l’intero sistema sanitario e sociosanitario».
Gli appelli alle raccolte fondi si sono moltiplicati. Per fare presa sulla generosità oggi «occorre coinvolgere sempre di più e meglio le comunità educanti, a partire dalla scuola», spiega Massimelli. Se la cultura della solidarietà non deve arretrare, «dobbiamo essere consapevoli che il terzo settore, dal privato sociale al volontariato, è un pilastro per l’intera società».
Di bilancio positivo, parla anche la Fondazione italiana ricerca sulla Sla (AriSla), che negli ultimi quindici anni ha investito negli studi oltre 16 milioni di euro e sostenuto 106 progetti. «Il piano strategico fino al 2025 – illustra Paolo Masciocchi, segretario generale della Fondazione – ha individuato come obiettivo prioritario il sostegno a studi con maggiori potenzialità di ricadute sui pazienti. Il nostro impegno è investire i fondi disponibili attraverso una scelta rigorosa che premia il merito e l’innovazione, e rendicontare in modo trasparente il nostro operato a chi ci sostiene». In Italia per risvegliare l’attenzione bisogna spingersi su piani diversi: «Ogni gesto di generosità a sostegno di una causa benefica nasce dalla conoscenza e consapevolezza della causa cui si contribuisce. Nell’ambito di cui ci occupiamo è importante informare il più possibile sulla Sla e sull’importanza di investire in ricerca. Per questo motivo, AriSla è da sempre impegnata non solo a finanziare la ricerca ma anche a promuovere iniziative di divulgazione scientifica e condividere i risultati della ricerca, affinché ognuno possa sentirsi parte del processo».
Da paziente e da imprenditore del food ha fondato un anno fa una associazione che collega il cibo con la sensibilità: è Davide Rafanelli, presidente di SlaFood e consigliere di AiSla: «Con altri chef – descrive – stiamo cercando di comunicare con una certa dose di leggerezza una malattia che è decisamente molto complicata. Attraverso la cultura del buon cibo e l’amore che la cucina trasmette vogliamo continuare a far conoscere le tante sfaccettature della vita con la Sla alle persone che partecipano agli eventi che promuoviamo a sostegno dei Centri Clinici NeMO di Milano e insieme ad Aisla. Da persona che vive con la Sla da due anni, credo sempre di più che questa malattia abbia bisogno di molta visibilità, per continuare a dare impulso alla ricerca scientifica». Rafanelli suggerisce di puntare sull’alleanza tra le associazioni a livello nazionale e internazionale: «Fare network per porci grandi obiettivi comuni nella raccolta fondi. Più siamo, più siamo visibili e forti, meglio riusciamo a comunicare con un’unica voce senza dispersioni. Dobbiamo camminare insieme per l’unico obiettivo di sostenere la ricerca, che ne ha profondamente bisogno. Sono convinto che siamo a una svolta nella conoscenza e nella cura di questa malattia».