sabato 6 luglio 2024
Un lettore appassionato si interroga, e ci incalza. La nostra risposta è che al primo posto c’è la dignità di ogni individuo in un confronto in cui è in gioco la coscienza di ciascuno
«Difesa della vita o accanimento?». Vicini alle persone, contro ogni selezione
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Sono un lettore appassionato di “Avvenire”, che apprezzo per le sue analisi sociali, politiche, economiche e perché è l’unico giornale italiano che parli seriamente di esteri. Su un unico tema resto spesso perplesso: il modo in cui si parla della difesa della vita. È fuori di dubbio che essa vada difesa, ma dove passa il confine tra difesa e accanimento?
Mi pare un argomento di una delicatezza estrema e invece leggo spesso giudizi netti su situazioni complesse. Personalmente percepisco un potenziale conflitto tra volontà di Dio e volontà degli uomini. Siamo sicuri che mantenere in vita a tutti i costi un anziano che non ne ha più voglia sia la cosa giusta da fare? Siamo sicuri che aver chiuso in casa per quasi due anni milioni di adolescenti per non avere accettato il principio (molto chiaro ai nostri avi) di non poter curare tutti abbia fatto il bene della Società?
Non è che dietro la difesa della Vita ci sia a volte solo una grande paura (o rifiuto) della Morte? Spero che questa mia sia presa per quel che vuole essere, e cioè uno spunto di riflessione e mi auguro che nessuno si senta offeso o provocato.

Cordiali Saluti
Filippo Molinari, Roma

Davvero nessuno ad “Avvenire” si può sentire «offeso o provocato» da un lettore attento che, come lei, offre argomenti utili a far riflettere tutti. A cominciare da me, che le rispondo su invito del direttore, anche perché curo dal 2005 “è vita”, la nostra sezione di bioetica e salute, su carta, online e ora anche newsletter.

Le confesso che l’equilibrio tra l’affermazione dei princìpi (che cerchiamo sia sempre motivata e mai aprioristica) e la realtà della malattia, della disabilità e della sofferenza è per me e per noi in redazione motivo di un continuo confronto, anzitutto con la mia e la nostra coscienza. Le tante vicende di cronaca che abbiamo raccontato nel tempo ci hanno sempre messi di fronte a uno specchio, se vogliamo fare il nostro servizio di giornalisti lealmente, ponendoci una domanda inesorabile: io, al posto suo, cosa farei?
E se non bastassero le notizie, c’è la nostra quotidianità a ricordarci che ciò in cui crediamo – la dignità delle persone sempre, il tesoro infinito della vita di tutti, la preziosità di ogni essere umano in qualunque condizione si trovi – resta un’astrazione se non lo intrecciamo alla realtà in carne e ossa, con tutte le sue contraddizioni che spesso sembrano senza uscita.

Ecco, l’idea oggi dominante (e dilagante) che sia preferibile a questa drammatica complessità lasciar libero ciascuno di fare cosa vuole della propria vita sembra un modo per “tagliar corto” evitando accuratamente di farsi carico della domanda di cura integrale che arriva da chi soffre e può arrivare a non farcela più. Chiediamoci perché questa insofferenza per la vita quand’è visitata dal dolore e dall’angoscia pare farsi sempre più insistente. Sembriamo non saper più che fare e dire, come comunità umana e come singoli, ammutoliti dalla ferita che si apre accanto (o dentro) a noi. Non sarà che la nostra società non sa più vedere e caricarsi in spalla chi soffre, è solo, patisce una menomazione per malattia, età, anche condizione sociale? È a questa selezione involontaria che serve opporsi prima che ci scopriamo giunti a un punto culturalmente di non ritorno.

Ad “Avvenire” proviamo a farlo con argomenti clinici, giuridici, bioetici, scientifici, ma anzitutto umani, ovvero avendo nel cuore e nella mente che protagonista di ogni situazione catalogata con la sbrigativa terminologia del giornalismo come di “fine vita” c’è una persona con le sue domande e attese. Non si tratta di tenere in vita qualcuno a ogni costo, come se la sua morte fosse inaccettabile: se non la fede, che ovviamente non è pretesa da nessuno, c’è la visione cristiana della vita a darci solidi motivi per credere che morire non è una condanna o una maledizione da sventare ma una parte inseparabile dalla nostra esistenza che ci apre a un’altra condizione. Tutto ciò di cui siamo costituiti ci dice che non siamo destinati al nulla ma all’eternità.

E proprio questo destino infinito della nostra umanità ci spinge a considerare la vita come un terreno “laicamente sacro”, cioè al di fuori della nostra disponibilità, tanto è grande la dignità della donna e dell’uomo. Ridimensionare per qualunque motivo questa certezza crediamo spalanchi la porta all’accettazione – che purtroppo vediamo ricorrente – di umiliazioni e calpestamenti della nostra umanità. Ne sono la prova la condizione di migranti naufraghi e lavoratori schiavi, di giovani privati del futuro e donne usate e percosse, di bambini senza diritti e anziani gettati nella discarica sociale dell’abbandono.

È a questa società dell’indifferenza che ci opponiamo con quello che abbiamo, l’informazione. E il nostro presidio quotidiano della vita umana nelle situazioni in cui è più forte la tentazione di non accoglierla e “lasciarla andare”, ignorandone la supplica muta di qualcuno che le si faccia accanto come il samaritano, è l’impegno perché la libertà da cui questo nostro tempo sembra dedito a svellere ogni limite non sia mai usata per ridurre la persona a una povera cosa senza valore, sacrificabile a piacimento (ed è questo rispetto sacrale che ci impedisce anche di oltrepassare la soglia dell’accanimento). Vale anche per i nostri ragazzi, che hanno patito più di tutti gli effetti della pandemia e che ora ci chiedono di essere ascoltati e non lasciati soli nella competizione sociale per sopravvivere alla quale sembriamo averli destinati, e che è assai peggio di ogni reclusione.

Avvertiamo la sua stessa passione, caro Molinari, per la causa dell’uomo in ogni parte del mondo e in qualunque situazione. Forse per questo, nelle naturali differenze di opinioni, ci sentiamo così in sintonia.

Caporedattore Desk centrale, coordinatore “è Vita”

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