mercoledì 13 dicembre 2023
Il presidente dell'associazione che rappresenta l'ospedalità religiosa: la risposta a una sofferenza estrema come quella della 53enne triestina morta con suicidio assistito non è la morte ma più cura
«La morte di Anna, un “successo”? Il suo dramma è una sconfitta della sanità»
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Anna è il nome di fantasia con cui le cronache italiane hanno parlato in questi giorni della donna triestina di 55 anni, da 13 malata di sclerosi multipla, morta nella propria abitazione lo scorso 28 novembre, autosomministrandosi il farmaco letale con l’assistenza di un medico del Servizio sanitario nazionale.
Non è fantasia invece scegliere il dramma di Anna per cantar vittoria. La prima sensazione suscitata da quella gran parte che in Italia ormai mira a far tendenza non è stata infatti la percezione dell’incapacità di una comunità di stare vicino a chi soffre, lenire il suo dolore con i tanti mezzi ormai a disposizione, ma soprattutto con la condivisione e l’amore. Il primo sentire è stato proprio il “successo” del primo suicidio con le proprie mani di un malato inguaribile assistito comunque da un medico, portato a compimento nel nostro Paese.

Non è questo il luogo per riaprire un dibattito su una questione che, come si sa, spacca in due il Paese. Quello che a noi interessa – di fronte all’immenso dolore che ha circondato l’intera vicenda di Anna – è sottolineare la cecità di una comunità incapace di rispondere al dolore se non con la soppressione della vita. Vittoria, hanno gridato, con l’intento di allargare il portone spalancato sull’eutanasia. “Sconfitta” consideriamo noi, operatori sanitari nelle strutture religiose Aris, il non essere ancora riusciti a far comprendere la risposta d’amore che può alleviare ogni sofferenza nell’accompagnare l’uomo al concludersi della sua avventura terrena. Come spesso ripetuto da papa Francesco, sulla scia del Catechismo della Chiesa, non siamo per l’accanimento terapeutico; piuttosto puntiamo a un potenziamento degli hospice per un’assistenza dignitosa del malato terminale, perché «la vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata».

È questa la posizione dell’Aris in merito alla triste vicenda della signora. Invitiamo dunque a una riflessione più profonda sulla tragedia di Trieste, sulla sofferenza di questa donna, che non ha trovato alternative migliori che morire, e sulla capacità del tessuto sociale in cui ella è vissuta di assicurarle il necessario sostegno. Per tale motivo e per scongiurare la deriva di una prassi consuetudinaria, l’Aris attraverso le strutture associate porta avanti da anni un impegno concreto nel potenziamento delle terapie del dolore e degli hospice come luoghi di speranza per le situazioni più disperate.
La vita è un dono ma non ci appartiene: dobbiamo solo custodirla e difenderla dal nascere al suo termine naturale. Piuttosto facciamo di più per renderla ancor più degna di essere vissuta e conclusa in serenità.
Presidente Aris
Associazione religiosa istituti socio-sanitari

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