Parole forti, sufficienti a scatenare polemiche, anche politiche. Si tratta infatti di un caso delicato e insolitoall'interno del dibattito bioetico. Per ammissione dello stesso giudice, è la prima volta che si affronta una vicenda in cui il trattamento vitale potrebbe non essere nel "migliore interesse" di un paziente "pienamente consapevole" delle proprie condizioni. Jackson ammette di trovarsi di fronte al caso più difficile della sua carriera. Anche se sottoposta ad alimentazione forzata, per E. le possibilità di salvarsi non supererebbero il 20%, a fronte di terapie invasive che fra l'altro dovrebbero durare almeno un anno. Tuttavia bisogna considerare che "viviamo una volta sola - osserva il giudice motivando la propria decisione - Veniamo al mondo una sola volta e una sola volta moriamo. E quella tra la vita è la morte è la più grande differenza che conosciamo".E. ha alle spalle una lunga storia di sofferenza - riporta il quotidiano Telegraph - che comincia all'età di 4 anni con abusi sessuali proseguiti fino agli 11 anni all'insaputa dei genitori. A 12-13 anni la ragazza è entrata nel tunnel della bulimia, iniziando a mangiare in modo compulsivo per poi indursi il vomito. Contemporaneamente ha cominciato ad abusare di alcolici. A 15 anni è entrata in cura da un esperto di disturbi alimentari dell'adolescenza. Nonostante tutto non ha perso l'ambizione di diventare un medico e ha iniziato a studiare per laurearsi. Ma dopo una delusione d'amore ha ricominciato a bere, ha lasciato l'università e dal 2006 al 2011 ha trascorso più della metà della sua vita passando da un centro all'altro specializzato in disturbi dell'alimentazione e dipendenza dall'alcol.
Un'odissea segnata dal dolore, che le ha tolto la voglia di vivere. Tramite il suo avvocato, la donna ha spiegato al giudice che la sua esistenza era diventata "puro tormento", che aveva fallito tutti gli sforzi per uscirne e che ora desiderava soltanto "morire in pace". Secondo il giudice Jackson, però, un giorno E. potrebbe cambiare idea e capire che "la vita val la pena di essere vissuta".
"Ci sconvolge dover difendere il diritto di nostra figlia a morire - affermano invece i genitori - La amiamo moltissimo, ma comprendiamo che ora il nostro compito dovrebbe essere aiutarla a lottare il suo interesse. E al momento, il meglio per lei ci sembra conquistare il diritto di seguire la strada che a scelto, libera da condizionamenti e senza il terrore di essere alimentata a forza. Sentiamo che ha sofferto troppo. Ha perso ogni speranza di raggiungere i traguardi che si era prefissata", dicono mamma e papà.
La decisione del giudice divide società e politica. "Ha preso una decisione saggia e coraggiosa", sostiene Peter Saunders, direttore della campagna pro-vita Care Not Killing. "È una sentenza molto controversa", ritiene invece Evan Harris, ex parlamentare liberal democratico e membro del comitato etico della British Medical Association: "La nutrizione forzata comporterebbe immobilizzazione e sedazione, implicazioni molto pesanti per un paziente che riufiuta ogni cura, e in più senza la certezza di un successo. Si imporrebbe tutto questo a una persona che ha tutti gli strumenti per rifiutarlo".