È la settimana dello scolaro, perché riprende la scuola. E va usata con orgoglio questa parola bellissima,
scolaro, divenuta obsoleta, al punto che si ha quasi pudore a pronunciarla (in contesti, almeno, di miserabile culto per i neologismi, che si rincorrono ad annullare se stessi, e di corrispondente retrazione dalle parole usate da sempre). Parola invece modernissima, scolaro, anzi: senza tempo. E molto superiore – per riferimenti etimologici, semantici e culturali – a sinonimi o corrispondenti, anche sedimentati: alunno sa di gruppo pop anni 60; allievo, di corso allievi ufficiali; discente, di circolare ministeriale; studente deve riferirsi, per sopraggiunto convenzionale cretinismo, solo a chi sia più avanti negli anni, come se quelli della Primaria non studiassero (vi verrebbe mai in mente di dire a qualcuno: «Mio figlio è studente, di terza». «Liceo?», sopraggiungerebbe fulminea la domanda; e se rispondeste: «No, elementare» vi guarderebbero strano). Viva lo scolaro, dunque, che con questo bel suono elimina la “u” e ci ripiomba nell’etimo latino di
schola, affrancato dall’odierno imperativo connesso alla pasta da non far scuocere. Perché è bellissima, come parola? Perché descrive l’appartenenza a una delle strutture che più segnano l’esistenza e che solo l’attività lavorativa può sopravanzare. Ma, in più, a favore della scuola c’è che rappresenta un binario su cui si viene immessi a 5-6 anni e che accompagna la vita fino alle soglie dei 20, contenendo quindi tutta l’età della crescita; o – per usare un meno felice termine – «il periodo dello sviluppo», espressione semifisiologica su cui giustamente ha svolto caustiche notazioni Edoardo Albinati. Naturalmente ci sono tempi e tempi per la scuola. Decenni fa la scuola era indissolubilmente legata a Ottobre quando ricominciava, e non certo a Settembre, mese di migrazioni dannunziane, di partitelle a pallone e semmai di libri da comprare. Due appuntamenti ti aspettavano fissi, rientrando tra i banchi: san Francesco e la scoperta dell’America. Sacro e profano andavano di pari passo a distanza di circa una settimana, con san Francesco inginocchiato a ricevere le stimmate e Cristoforo Colombo inginocchiato a piantare la bandiera di Spagna nelle Indie. In seguito si sono fusi in Pocahontas: quando è uscito il film, il Cantico delle Creature è diventato il precedente europeo del culto della Natura Madre dei nativi americani, nell’immaginario mediatico. C’era anche un terzo mesto appuntamento ad aspettarti con la riapertura a ottobre, se si era alle Elementari: imparare a memoria l’orrenda poesia «Lieta fu la vacanza/ ma più allegro il ritorno;/ non conosco altro giorno/ più ricco di speranza», poesia il cui autore andrebbe processato per crimini contro l’umanità, avendo costretto intere generazioni a ripetere esattamente l’opposto di ciò che pensavano, manco fossero a un’adunata mattutina in Corea del Nord. Ma sul fatto che “scolaro” abbia alle spalle un’imbattibile tradizione culturale di eccellenza e verità, è comprovato dall’uso che ne fa Shakespeare ne “Le sette età dell’uomo” (dalla Commedia “
As you like it” – 1600). Sceglie infatti, tra vari termini a disposizione in inglese,
schoolboy, così riferendosi alla seconda delle sette età: «C’è poi il frignante scolaro con la sua cartella/ e con in faccia il sole del mattino, che si trascina come una lumaca/ malvolentieri a scuola». Quanta verità in Shakespeare. Ai suoi tempi su mani e natiche dei poveri
schoolboys fioccavano sibilanti bacchettate. Ma anche adesso, a quattro secoli di distanza e senza bacchettate, non si vede uno scolaro che abbia cambiato passo, in ogni senso, quando deve andare a scuola.