Qualche sera fa ero a Conselve, in provincia di Padova, per un incontro rivolto ai genitori. Sono spesso in giro dal nord al sud d’Italia per cercare di aiutare questa categoria che si trova in uno stato di particolare fragilità e a cui mi sto dedicando insieme al mio Istituto Cpp da tantissimi anni. Alla fine del mio intervento sul tema Il coraggio di educare, tra i duecento partecipanti, un signore alza la mano: «Perché i ragazzi si portano dietro i coltelli?». Se persistevano dubbi sulla consistenza del fenomeno, senz’altro questa domanda non lascia molto spazio a equivoci.
Anche in studio mi capita di incontrare ragazzini di quattordici, quindici, sedici anni che confessano candidamente di tenere un coltello nello zaino o di essere pronti a infilarsi in una rissa con una certa naturalezza.
Sembra esserci in alcuni ragazzi, prevalentemente di sesso maschile, una profonda inconsapevolezza, se non ignoranza, di una delle basi principali della vita e della convivenza civile: l’uso della forza, anche in termini di costrizione, è in capo all’istituzione statale e nessuno, nello stato di diritto, può farsi giustizia da solo. È un basilare che, a partire dall’adolescenza – undici, dodici anni –, ciascun ragazzo o ragazza, anche in relazione alla forza fisica che può agire nei confronti degli altri, deve aver interiorizzato o comunque interiorizzare. A quanto pare, per molti di loro non è così. Emerge un problema, da un lato di disadattamento da parte di alcune tipologie di adolescenti, dall’altro di scarsa sintonizzazione fra alcune culture di origine di certi ragazzi stranieri rispetto alla nostra, sia italiana sia europea. È risaputo che l’uso del coltello ha significati profondamente diversi a seconda degli ambienti antropologici in cui viene impiegato. Sottovalutare questo dato è molto pericoloso: sia perché rischia di dare per scontato che i ragazzi arrivati in Italia si adeguino con naturalezza e spontaneità alle norme e alle abitudini in cui vanno a collocarsi, sia perché finisce con il dimenticare l’importanza dei processi di apprendimento per imparare a saper stare al mondo.
Devo purtroppo constatare che l’introduzione dell’Educazione Civica realizzata tre anni fa nelle scuole italiane non ha in alcun modo previsto la gestione dei conflitti come ambito non solo rilevante, ma prioritario della relazione con gli altri e dello stare assieme come comunità. Non sempre le scuole, in assenza delle famiglie, sembrano ingaggiate e motivate su questo versante. Specie nelle superiori, la prevalenza della pura e semplice trasmissione di contenuti attraverso le lezioni (frontali) la fa da padrone dimenticando che alla base di tutto ci sta conoscere sé stessi e le regole che improntano le relazioni sociali.
Finisce così che l’uso del coltello venga considerato un sottotraccia scolastico di scarso rilievo creando pertanto una sorta di riluttanza ad affrontare, anche in termini di problematizzazione, determinate competenze che appartengono proprio all’apprendimento sociale profondo. È fondamentale che i genitori siano informati. Genitori che spesso sono solo le mamme. Non so quante volte mi trovo a dover ribadire l’importanza del padre, ma spesso queste situazioni drammatiche si creano proprio in un’orfanità paterna davvero devastante per un adolescente. Motivo in più perché la comunità – scolastica, sportiva, civile, religiosa – sopperisca evitando di lasciare questi ragazzi in un limbo di incertezze che finiscono con il creare in loro stessi degli equivoci spaventosi. L’equivoco del duello, per esempio, eliminato nella legislazione italiana soltanto nel 1930 e che ha visto protagonisti personaggi quali il Primo Ministro Cavour, Felice Cavallotti, gli stessi Benito Mussolini e Gabriele D’Annunzio.
Per fortuna sono tempi lontani e occorre chiarire che la rissa in quanto tale non ha niente a che vedere con il comune conflitto o litigio. È una forma completamente diversa che anche dal punto di vista giuridico viene valutata in tutt’altro modo.
Nella rissa basata sull’aggressione fisica ciascun contendente tenta di colpire, ferire e neutralizzare violentemente il presunto nemico. Viceversa, il conflitto è una forma di contrasto che non prevede la violenza. Abbiamo bisogno che le istituzioni educative, nel momento in cui la famiglia è palesemente assente, sappiano offrire a questi ragazzi una capacità di affrontare le loro tensioni non con la sfida all’eliminazione reciproca, tipica di queste risse con il coltello, ma la possibilità di comunicare, discutere e gestire le proprie divergenze. È ora che la scuola, per esempio, recuperi nelle classi il gusto della discussione e del confronto per imparare a vivere la contraddizione fra le persone come momento fondante della convivenza e della democrazia. Si tratta di imparare queste competenze senza prediche o spiegoni, offrendo apprendimenti concreti, pratici, operativi. Le scuole sono il luogo elettivo per tutto questo, ma possono esserlo anche i centri educativi, gli oratori e le associazioni sportive. Occorre un confronto più ampio che non deleghi queste vicende né ai soli tribunali né alle sole forze dell’ordine. Anzi, in primis viene il mondo dell’educazione.
Mi auguro che questa emergenza si trasformi in una grande occasione di apprendimento.