Caro direttore,
era già avvenuto dopo l’approvazione dell’accordo sul Recovery Plan: anche i commentatori più avvertiti avevano tardato a rendersi conto della sua importanza istituzionale e si erano limitati a constatarne i vantaggi per il superamento della crisi. Poi, un po’ alla volta, si è fatta strada la consapevolezza che l’accordo pone le basi per un nuovo assetto delle istituzioni europee. L’Europa era in crisi per ragioni che vanno oltre la solita e scontata costatazione degli egoismi nazionali, ma per un vizio di origine: nell’immediato dopoguerra, il percorso comunitario era stato avviato, al di là delle dichiarazioni roboanti, con l’obiettivo di evitare nuovi, reiterati e disastrosi conflitti armati fra gli Stati attraverso la creazione di un mercato comune: in un sistema aperto le singole Nazioni potevano anche confliggere ed espandersi senza la necessità di ricorrere alle armi. Il sistema ha funzionato e non è retorico costatare ancora una volta che ha dato vita a oltre settant’anni di pace, senza precedenti nella storia. Questo risultato è stato ottenuto, però, attraverso strumenti di controllo e di contrasto alle forme di espansione impropria delle economie dei singoli Stati, quali si potrebbero ottenere attraverso un uso sbagliato delle imprese pubbliche e un sistema di aiuti che avrebbero falsato la concorrenza. Ancora di più dopo l’istituzione della moneta unica, l’euro, il 'rigore' nella quantità e nell’uso di fondi pubblici non era frutto di un approccio burocratico, ma la conseguenza naturale del modello adottato.
La conseguenza era che l’Unione, che non si occupava dei bisogni delle popolazioni, lasciandone la responsabilità agli Stati, finiva per costituire un ostacolo alle politiche nazionali, impedendo non solo la dilatazione impropria della spesa pubblica, ma anche le politiche espansive che si rendono necessarie per superare la fasi di difficoltà. La conseguente crisi delle istituzioni europee era ormai resa evidente dall’inevitabile espansione delle posizioni politiche anti-europee, rafforzate in Italia (come in Grecia) dagli effetti dell’improvvido regolamento di Dublino sull’immigrazione. Il Recovery Plan risponde a una impostazione politica diversa perché l’Unione si fa carico direttamente dei bisogni delle popolazioni, sostenendo, con proprie risorse, gli interventi degli Stati volti a contrastare la crisi e a promuovere un rinnovamento delle economie. Non meraviglia quindi che, dopo un esame più attento, i commentatori ne abbiano colto il particolare rilievo istituzionale: anche una persona così poco abituata all’ iperbole come il presidente Mattarella lo ha giustamente definito «storico». Il discorso di Ursula von der Leyen sullo stato dell’Unione si muove nella stessa direzione, ma la concretizza, e in qualche modo la supera, non solo nell’impostazione ideale che lo ispira ma anche nelle misure concrete che propone. Sinora solo negli appelli del Papa si era sentito l’invito a superare un modello economico che «antepone la ricerca della ricchezza a quella del benessere».
L’invito alla solidarietà e al superamento degli egoismi nazionali non resta solo confinato nel limbo delle buone intenzioni, ma viene supportato da misure che rendono questi obiettivi realisticamente praticabili perché indicano i concreti vantaggi che ne deriverebbero a ciascuno degli Stati. Le misure proposte sono note: un sistema sanitario europeo, l’aiuto alla disoccupazione, già anticipato dal Sure, e la politica per un 'salario minimo' ai lavoratori, la responsabilità comune per la gestione dei fenomeni migratori, con misure che saranno definite fra breve, una forte politica ecologica con obiettivi ambiziosi e stringenti, la guida e la diffusione del processo di digitalizzazione che renda l’Europa autonoma rispetto ai colossi mondiali, una politica estera comune da realizzare superando il vincolo dell’unanimità nelle decisioni.
Ma v’è di più perché, ferma restando la competenza degli Stati nella attuazione delle misure, il 57% delle risorse del Recovery Plan, chiamato significativamente Next Generation Eu, viene vincolato al conseguimento di obiettivi europei nella lotta al cambiamento climatico e nel processo di diffusione di una autonoma digitalizzazione: il piano perde così il carattere di una mera redistribuzione di risorse fra gli Stati: questi resteranno gli attori nella realizzazione delle misure che avranno però anche il carattere attuativo delle politiche dell’Unione. La graduale trasformazione dell’Unione Europea in Stato federale si rimette così in moto e non più secondo disegno astratto, ma attraverso l’impulso a politiche volte a tutelare le popolazioni europee. È bene quindi che l’opinione pubblica si renda conto di questo importante processo di cambiamento istituzionale e non lesini anche a esso la qualificazione di svolta storica, che merita.
Giurista, professore emerito nell’Università di Roma Tre