Nella maggioranza di governo cresce la discussione sull’opportunità o meno di dare un segno di discontinuità riscrivendo l’insicura ma arcigna 'sicurezza' dei decreti Salvini, e soprattutto cambiando in modo sostanziale la politica sulle migrazioni. Secondo stime attendibili il giro di vite impresso da quei decreti convertiti in legge avrebbe sinora prodotto circa 100mila irregolari in più, spingendo ai margini e oltre anche persone già utilmente inserite nella realtà italiana, e fatto perdere almeno 10mila posti di lavoro di operatori italiani e stranieri che lavoravano nei centri dell’accoglienza. Per provare a cambiare lo stato delle cose bisogna capire in profondità da dove viene l’ostilità di una parte dell’opinione pubblica verso gli immigrati.
La comunicazione dell’ex ministro dell’Interno ha costruito su questo punto una parte importante del suo successo con una narrativa che si propone di giustificare la repressione ferma dei flussi migratori. Ecco i cardini di questo racconto: il «capitale transnazionale» ha interesse attraverso «trafficanti di carne umana » di far arrivare ingenti masse di immigrati a bassa qualifica sulle nostre coste. I migranti abbassano il costo del lavoro, riducono le opportunità di occupazione per i nativi e finiscono per pesare negativamente sull’economia italiana. Se allarghiamo l’orizzonte scopriamo, però, che esiste da tempo una vasta letteratura sugli effetti economici delle migrazioni e con essa il paradosso di una differenza molto forte di opinioni tra gli economisti stessi e l’opinione pubblica sugli effetti del fenomeno, e qui la narrativa di cui si appena detto è intervenuta con l’effetto di approfondire ulteriormente il paradosso.
Nella letteratura economica, come ha ricordato recentemente Borjas in un articolo di sintesi sul Journal of Economic Literature, si parte da una visione ultraottimistica degli «assegni da trilioni di dollari» disponibili (in termini di aumento di Pil globale) sui marciapiedi in caso di eliminazione delle restrizioni ai flussi migratori. Un filone recente più critico (si vedano Collier e Ruhs ad esempio) sottolinea però come un’ipotesi così estrema e utopistica sarebbe difficilmente sostenibile da parte dei cittadini dei Paesi di destinazione per motivi identitari e di tenuta delle norme e convenzioni sociali. Nono- stante questi distinguo, però, la visione positiva tra gli addetti ai lavori è ben radicata e, quando in una recente indagine i colleghi De Benedictis e De Maio hanno interrogato 331 economisti italiani sulle ricette di politica economica necessarie per il nostro Paese, solo uno di essi ha ritenuto necessario indicare una riduzione dei flussi migratori.
In estrema sintesi le ragioni di questa visione positiva sono che i lavori degli immigrati tendono a essere complementari con quelli dei nativi, gli immigrati creano imprese e posti di lavoro, contribuiscono alla domanda e al welfare del Paese di destinazione. E, più in generale, la libertà di circolazione delle persone favorisce un’allocazione più efficiente del lavoro a livello mondiale. Eppure, come si è accennato, la visione dell’opinione pubblica nei Paesi occidentali appare radicalmente opposta a quella degli addetti ai lavori. In una recente indagine nei paesi Ocse quasi la metà degli intervistati ritiene che i migranti riducono posti di lavoro dei nativi e contribuiscono negativamente al welfare.
I dati della European Social Survey (34 Paesi e più di 280mila osservazioni dal 2006 al 2014) evidenziano che più della metà degli intervistati ritiene complessivamente negativo il contributo dei migranti all’economia. Si tratta spesso di una opinione quasi schizofrenica che riconosce essenzialità del ruolo lavorativo degli immigrati nella propria sfera familiare (servizi alla persona) o nella propria piccola o media impresa, ma poi assume posizioni molto più critiche e negative quando di 'migranti' si parla in generale e in astratto.
In un’analisi econometrica realizzata anche da chi scrive su questi dati osserviamo che solo una parte di queste opinioni negative può essere considerata razionale («Why economists and public opinion views on immigrants’ contribution to local economy do not match? The role of tv exposure», Leonardo Becchetti and Berkan Acar). È infatti ragionevole e comprensibile che i cittadini con più basso livello d’istruzione e quelli che occupano qualifiche più basse siano preoccupati della concorrenza di immigrati poco qualificati ai loro posti di lavoro. È invece assolutamente 'irrazionale' e singolare che, dopo aver corretto per tutti i fattori di controllo possibile (genere, età, livello d’istruzione, tipo di lavoro, posizionamento politico sull’asse destra-sinistra, area di residenza) le ore passate davanti alla tv abbiano un effetto fortemente negativo sull’opinione del ruolo dei migranti sull’economia.
Le spiegazioni possibili sono tre. La prima è che i media televisivi, con l’alibi dell’audience, tendono a dedicare molto più tempo a fatti di cronaca nera creando distorsioni statistiche sulla loro rilevanza tra gli spettatori. La seconda è che su questi media la voce dei migranti e degli stranieri residenti è praticamente assente. La terza è che media televisivi orientati verso i partiti di destra hanno interesse a rinforzare l’opinione allarmata degli spettatori sui problemi del fenomeno migratorio perché è questo uno dei temi che rinforza il consenso attorno a questi stessi partiti. Un dato fondamentale nella ricerca citata, e in quelle di alcuni altri colleghi, è che è proprio la tv (e non radio, giornali e neppure la rete) a produrre quest’effetto. Probabilmente perché la tv è il mezzo di comunicazione che ancora costruisce gran parte dell’immaginario collettivo e nel quale siamo più passivi e meno protagonisti della selezione e riflessione sui contenuti.
Il paradosso sul ruolo degli immigrati ci insegna ancora una volta che oggi non possiamo pensare di affrontare e risolvere un problema economico solo con la riflessione, l’analisi e la soluzione degli addetti ai lavori. Gli equilibri sociali ed economici sono il frutto dell’interazione tra le decisioni di policy e i comportamenti e le opinioni dei cittadini, a loro volta influenzate dalla 'battaglia politica' della comunicazione e dall’agenda d’importanza delle notizie che i vincitori di questa battaglia impongono. Per contribuire al progresso sociale è pertanto necessario lavorare contemporaneamente ed efficacemente su tre campi, quello dell’indagine scientifica, delle proposte di policy e della comunicazione sociale e politica.