La mancata investitura del presidente del governo spagnolo mercoledì e venerdì della scorsa settimana ha aperto una nuova fase della lunga crisi di governo che attanaglia da ormai nove mesi il quinto stato dell’Unione europea per popolazione e per Pil. A fallire questa volta è stato il premier in funzione, Mariano Rajoy: nonostante si sia autoproclamato vincitore delle elezioni legislative dello scorso 26 giugno (nelle quali il suo Partito popolare ha ottenuto 137 seggi su 350, con un incremento di 14 seggi rispetto alle elezioni del dicembre 2015, ma pur sempre molto meno dei 176 necessari a ottenere l’investitura), Rajoy è naufragato davanti al Congresso dei deputati, con modalità non dissimili dal naufragio toccato in aprile al leader socialista, Pedro Sánchez. Dal voto di venerdì hanno iniziato a muoversi le lancette dell’orologio che condurranno, in mancanza di un nuovo governo, alle terze elezioni legislative nell’arco di un anno: se nulla di nuovo accadrà (e il breve colloquio telefonico di ieri tra Rajoy e Sanchez non ha fatto che confermare la situazione di stallo) quel voto avrà verosimilmente luogo nel periodo natalizio. E si tratterà in un certo modo di un record: nessun governo parlamentare inefficiente (o il disfunzionale parlamentarismo belga) hanno avuto bisogno di tre elezioni in un anno per tentare di formare un nuovo esecutivo.
M a cosa ha trasformato la Spagna in una democrazia inceppata, rimasta vittima dell’incubo di ogni regime parlamentare, quello di non riuscire a produrre una maggioranza capace di sostenere un governo? E quali possono essere le vie d’uscita? La domanda sulle cause dell’attuale stallo ha una risposta piuttosto semplice, ma rinvia a questioni più complesse. La risposta semplice fa riferimento alle scelte dell’elettorato spagnolo, il quale sia nelle elezioni del 21 dicembre 2015 che in quelle del 26 giugno 2016 ha rigettato l’assetto sostanzialmente bipartitico (egemonia del Partito popolare e del Partito socialista) che aveva trasformato la Spagna degli anni fra il 1982 e il 2015 nella democrazia più stabile d’Europa. Invece che un assetto bipartitico, complicato solo in parte dalla presenza di voraci partiti autonomisti, pronti a contrattare il loro sostegno al partito di maggioranza relativa in cambio di prebende (soldi e competenze per le loro regioni: soprattutto Catalogna, Paese Basco e Isole Canarie), gli elettori hanno restituito alla classe politica spagnola un equilibrio quadripartitico, nel quale, oltretutto, nessun accordo a due (Popolari/Ciudadanos; Socialisti/Ciudadanos; Socialisti/Podemos) è sufficiente a produrre una maggioranza autosufficiente. In una situazione simile, i regimi parlamentari offrono una vasta gamma di soluzioni possibili: una grande coalizione fra i due partiti principali; un esecutivo di minoranza, sostenuto dall’astensione degli avversari per sbloccare la situazione; un governo 'tecnico' sotto l’impulso del Capo dello Stato.
I n effetti, una grande coalizione fra Popolari e Socialisti sarebbe una soluzione ragionevole, cui si fa ricorso in varie democrazie europee (in particolare Germania, Austria e persino, per alcuni aspetti, l’Italia dell’estate 2013). Ma i due partiti più forti sono troppo deboli per procedere su questa strada: in particolare il Partito socialista – insidiato a sinistra dal chiassoso estremismo verbale di Podemos – non vuole correre il rischio di un accordo di questo tipo. Inoltre il rapporto fra i due leader – Rajoy e Sánchez – è troppo deteriorato. Fra i gruppi dirigenti dei due partiti manca un minimo di fiducia reciproca e i rispettivi elettorati sono abituati a considerarsi reciprocamente incompatibili, anche se non sono mancate voci che hanno invitato a procedere in questa direzione. Il governo di minoranza richiede una dose di fiducia minore fra i due partiti, ma neanche questa soluzione – su cui Rajoy ha, in vario modo, puntato negli ultimi due mesi – sembra praticabile. Resterebbe la via di un governo tecnico, guidato da una personalità senior, fuori dalla prima linea della battaglia politica (si è fatto il nome dell’ex Alto rappresentante per la politica estera europea, il socialista Javier Solana) o da un esponente del Partito popolare diverso da Rajoy, meno conflittivo verso i Socialisti (circola il nome del ministro degli Esteri, García Margallo). In fondo è una soluzione 'alla Monti', ma in Spagna fanno difetto i due prerequisiti per utilizzarla: la disponibilità dei partiti al compromesso (e in particolare di Rajoy a fare un passo indietro, o quantomeno 'a lato') e un Capo dello Stato che abbia l’autorevolezza di proporre ai partiti una soluzione non automatica. Filippo VI ha sinora scelto una strategia assai cauta, quasi notarile, e non ha tentato di forzare alcuna soluzione: ed è improbabile che lo faccia nei prossimi mesi.
D a questo complesso scenario risulta dunque la tempesta perfetta. Fortunatamente essa si svolge su uno scenario economicamente rassicurante: l’economia spagnola, dopo la dura crisi degli anni successivi al 2010, è in netta ripresa e sembra quasi indifferente all’esistenza o meno di un governo nella pienezza dei poteri, anche se la crescita spettacolare del debito pubblico negli ultimi anni (ha superato da poco il 100% del Pil, mentre solo un lustro fa era attorno al 70) lancia preoccupanti segnali di allarme. In fondo la democrazia spagnola è in questi mesi vittima delle stesse cause del suo successo negli scorsi decenni. Basata su partiti coesi e verticistici, chiaramente contrapposti gli uni agli altri, e su un sistema elettorale che premia in maniera più che proporzionale le principali forze politiche, essa si era convertita nel 'paradiso' dell’alternanza e del maggioritario, in maniera quasi più funzionale che il sistema britannico. Ma le rigidità culturali della classe politica che l’ha sorretta per trent’anni si sono trasformate in un handicap in una situazione complessa come quella attuale.
N el dicembre 2015, dopo la prima elezione andata a vuoto,
El Pais pubblicò un divertente editoriale dal titolo «Andreotti, illuminaci!», nel quale si lamentava l’esistenza di un Parlamento 'italiano', ma senza politici 'all’italiana', capaci di ogni tipo di mediazione (il riferimento, va precisato, era alla Prima Repubblica, non all’Italia attuale). Nove mesi dopo, i politici spagnoli sono ancora prigionieri nel loro labirinto, e nessuna via d’uscita sembra apparire all’orizzonte, salvo la roulette russa della ripetizione continua delle elezioni. Mariano Rajoy può forse puntare su una vittoria 'per sfinimento' dell’elettorato, ma si tratta di un gioco non privo di pericoli, proprio come la roulette russa.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Il leader del Partito popolare Mariano Rajoy in Parlamento nel corso del dibattito sul governo