«È il fiume che trasforma il legno mentre lo trasporta via», diceva una vecchia canzone. Che sembra parlare del lunghissimo iter della Manovra economico-finanziaria per il 2019 modellata e modificata nelle rapide della dialettica, dei conflitti, ma anche di un processo di intelligenza collettiva che contrappone governo, opposizione, società civile, opinione pubblica e istituzioni europee. Certo, sarebbe stato saggio per la nave del Governo Conte-Di Maio-Salvini non navigare troppo vicino agli scogli di una crisi finanziaria evitando di andare deliberatamente allo scontro con le istituzioni europee. Perché, come aveva subito avvertito il ministro Tria, quei decimali in più di deficit per "sfidare" la Ue se li sarebbe rimangiati l’aumento di spesa per interessi generato dalla crescita dello spread.
Tutti i Paesi europei stanno riuscendo in questa fase a combinare la riduzione di deficit e debito e politiche di sostegno alla crescita. Noi no. Invece di cercare sempre responsabilità negli altri (vero sport nazionale) potremmo domandarci perché siamo gli ultimi della classe. Finora siamo solo riusciti nel capolavoro di far aumentare lo spread di 200 punti nella fase di riscaldamento prima ancora di iniziare la partita. I costi della strategia del conflitto sono stati sinora tutto sommato contenuti, ma potrebbero aumentare drammaticamente travolgendo il Governo stesso se non si trova un ragionevole compromesso.
Il problema che stiamo vivendo è però più profondo. Zygmunt Bauman confidava di non invidiare i leader politici nazionali nell’era della globalizzazione per i limitatissimi spazi di manovra di cui dispongono per modificare in meglio la vita dei loro cittadini. Partendo da questo dato di base viviamo oggi una stagione politica inquinata da un cortocircuito nel rapporto tra scienza, politica e comunicazione. Gli studi sulla dinamica del mercato del lavoro e degli effetti della quarta rivoluzione industriale convergono nell’identificare società-polveriera dove al terzo della popolazione integrato, cosmopolita e con più elevati livelli d’istruzione da cui vengono solitamente le élite si contrappongono i due terzi dei ceti medi e meno abbienti che vedono davanti a loro un futuro peggiore del passato in termini di dignità e qualità del lavoro.
Quei due terzi diventano il carburante di cicli politici esplosivi. Il populismo alimenta aspettative irrealistiche, e quando arriva al potere e scopre di non poter realizzare quei risultati cerca continuamente nemici e avversari per non perdere il consenso degli elettori in una vera e propria campagna elettorale permanente.
Per uscire da questa crisi ci vuole qualcosa di più profondo della ricerca di un nuovo leader. Bisogna bonificare il terreno del rapporto tra società e politica. Lavorando su cultura e comunicazione e costruendo una nuova visione ideale che responsabilizzi i cittadini. Formazione, innovazione, generatività, sostenibilità, sussidiarietà, capitale sociale, bene comune devono essere le parole d’ordine e i nuovi capisaldi. Tutto questo senza pensare di ignorare i problemi delle persone, con empatia ed evitando di pensare a élite che pretendono di dispensare il verbo dalla zona Ztl delle nostre città.
Seguendo l’insegnamento di papa Francesco che ci chiede di guardare la società dal punto di vista degli ultimi e degli scartati. Consiglio che in questo momento non è solo per la santità di pochi, ma per la saggezza di una classe politica che porta gravose responsabilità. Sintetizzando all’estremo, la sfida di oggi è essere popolari senza essere populisti. Ovvero lavorare con i cittadini per risolvere i loro problemi senza la ruffianeria di raccontare fandonie che possono aiutare a vincere le elezioni, ma non a risolvere i problemi del Paese.
Guardando alla nostra storia passata giganti come Sturzo e De Gasperi ci sono riusciti. Nonostante quelli fossero i momenti sicuramente più difficili della nostra storia, i due statisti potevano contare su di una cultura diffusa capace di rendere molto più chiaro a tanti (se non a tutti) che la ricchezza e il senso della vita sono nel contributo che ciascuno può dare alla famiglia e alla comunità. In una società anarcoide e spiritualmente molto più povera dove in molti purtroppo credono illusoriamente che la felicità sia arraffare senza contribuire la missione è molto più difficile.
Ma proprio per questo affascinante. Un piccolo vantaggio da cui partire è la ricchezza di reti, esperienze e personalità che abbiamo oggi nelle diverse realtà cattoliche a cui si può sommare l’impegno civile laico. La conversione di questa ricchezza civile in ricchezza politica è la sfida più difficile e urgente dei nostri tempi.