È accaduto in Francia ma poteva capitare in Italia. Protagonista suo malgrado, una donna oggi sessantasettenne, Jacqueline Savage, per 47 anni schiavizzata e brutalizzata dal marito, la quale, dopo aver subito un ennesimo episodio di pesante violenza, non ce l’ha più fatta e lo ha ammazzato. Condannata in primo grado e in appello a dieci anni di carcere, aspetta ora il giudizio di Cassazione, ma senza grandi speranze, dati i limiti che caratterizzano le competenze della Corte transalpina non meno di quelle della sua omonima nostrana. La condanna ha però scosso fortemente l’opinione pubblica francese, e non solo quella parte di essa che da sempre è più impegnata nel mettere a nudo e cercare di contrastare la vergogna del 'machismo', specialmente nelle sue manifestazioni più violente. Una vera e propria mobilitazione di massa si sta dunque registrando a sostegno della domanda di grazia, formulata dalle tre figlie della coppia, concordi nel sottolineare come la madre, durante tutta la vita matrimoniale, sia stata vittima di un uomo «violento, tirannico, perverso e incestuoso», secondo la terribile definizione che del padre non esitano a dare esse stesse, a loro volta oggetti di ripetuti stupri.La tristissima vicenda mette in particolare evidenza, ancora una volta, la profondità degli abissi cui può giungere il male anche nella quotidianità del nostro mondo 'civile', rendendo un inferno pure la vita in un ambito, quello della famiglia, in cui l’amore umano è chiamato a trovare la sua più autentica pienezza e le raggiungere vertici ineguagliabili di tenerezza. E sono emerse pure responsabilità morali diffuse, spesso destinate a rimanere sconosciute: quante indifferenze, quante inerzie, quanta incapacità da parte di chi – dai vicini di casa alle pubbliche istituzioni – non riesce a (o non vuole) vedere il dipanarsi di un vissuto di continue violenze di cui per sono per lo più donne a restare vittime (ma non sempre loro soltanto) e che, con altri atteggiamenti collettivi, potrebbero forse essere evitate o quantomeno fronteggiate efficacemente. A essere chiamato in causa, però, è anche il tipo di risposta che in casi come questo vengono a dare gli apparati della giustizia umana. Infatti, lo sdegno che anima la mobilitazione si appunta anche, e forse soprattutto, sul rifiuto che in questo caso due Corti d’assise hanno concordemente opposto, alla richiesta difensiva di riconoscere, nel caso di specie, la 'legittima difesa' come giustificazione della reazione di Jacqueline: rifiuto, a quanto pare, motivato dalla mancanza di stretta contestualità tra l’ultima aggressione subìta dalla donna e la sua reazione. Difficile, da un osservatorio come il nostro, trarre valutazioni precise e sicure sul piano strettamente tecnico-giuridico, data la conoscenza soltanto approssimativa della dinamica del fatto che ha dato luogo all’imputazione; ma un paio di rilievi sembrano potersi egualmente fare. Da un lato, si può cioè capire il timore dei giudici, di creare, con un’assoluzione, un 'precedente' su cui avrebbero poi potuto poggiare pericolose dilatazione del campo di applicazione della legittima difesa. D’altro canto, però, non può negarsi che è del tutto iniquo il far scontare una pena – e una pena detentiva comunque lunga e grave, sebbene di entità lontana dai massimi cui la specie del reato addebitato avrebbe potuto condurre – a una creatura che ha già subito ingiustamente una sorta di durissimo carcere domestico per la più gran parte della sua vita. È in casi come questo che la concessione della grazia – anche prima che si possa constatare se il condannato, avendo già scontato buona parte della pena, abbia dato segni di effettivo 'ravvedimento' – può funzionare come rimedio a un’oggettiva ingiustizia, che rimarrebbe altrimenti tale, seppur provocata da una rigorosa applicazione della legge (
summum ius summa iniuria); ma senza suonare a incoraggiamento per fare, di un gesto comunque tragico, un esempio da imitare.