La strada giusta verso il Reddito d’inclusione Il dibattito sviluppatosi su Avvenire relativamente alla questione del reddito di cittadinanza/sostegno per l’inclusione attiva ha chiarito molto bene quale sia l’orizzonte ideale nella prospettiva dei valori della dottrina sociale cristiana (e direi della cultura umanistica tout court). L’ideale è quello della fioritura, della ricchezza di senso della vita che si realizza attraverso la generatività. Generatività che implica necessariamente l’inserimento in un circuito di reciprocità, ovvero in quel tessuto di dare e avere che ci fa sentire membri di una comunità.
Capiamo allora il senso di una bellissima e paradossale frase di un padre conciliare come Jean Danielou che diceva «se ami qualcuno chiedigli qualcosa in cambio». Ovvero se lo ami restituiscigli la dignità che si acquista solo se è in grado di dare oltre che di ricevere. E capiamo anche meglio il senso del riferimento ripetuto del Papa agli scartati, che lo sono non in quanto non ricevono nulla ma in quanto non messi in grado di essere utili alla società e quindi esclusi dalla sua trama fatta di reciprocità e di dare-avere. Si tratta di un obiettivo che va persino oltre quello della piena occupazione, che chiameremmo di piena attività, perché vuole coinvolgere ad esempio anche i nostri longevi, non più in età da lavoro, anch’essi da inserire e inseribili in questa fitta trama di reciprocità attraverso molteplici vie (il volontariato, la cura delle generazioni più giovani in famiglia e in società, la condivisione delle loro esperienze, ecc.).
È stato opportunamente sottolineato anche che, parallelamente all’obiettivo alto del riscatto degli ultimi, lo specifico della cultura cristiana sta nell’invito ad incontrare e ad essere a fianco di chi vive la fragilità, ricordando anche che se la miseria subita va combattuta esiste anche una 'povertà' desiderata che è la libertà del distacco dalla schiavitù degli idoli e la scoperta della propria creaturalità.
Se vogliamo però fare qualche passo avanti nella dimensione del riscatto dalla miseria dobbiamo nella logica dell’incarnazione 'sporcarci le mani' e calarci nel punto in cui ci troviamo oggi e con i limiti delle risorse a nostra disposizione. Partendo dal punto, largamente condiviso e ribadito anche da papa Francesco nella sua recente visita a Genova, che essere destinatari di un reddito sociale, destinatari di una beneficenza non ricostituisce per sé la dignità ferita. Il nostro punto di partenza oggi è costituito dal Sostegno per l’Inclusione Attiva (SIA) che rappresenta una tappa intermedia verso il Reddito d’Inclusione, sul quale si è verificato l’incontro tra governo e rete della società civile riunita nell’Alleanza contro la Povertà, nella quale tante realtà del mondo cattolico hanno giocato un ruolo da protagonista.
Questa misura dovrebbe idealmente rivolgersi a tutti coloro sotto la soglia di povertà assoluta (ovvero con un reddito inferiore a quello necessario per acquistare il paniere di beni e servizi essenziali per vivere), una platea di 5 milioni di persone in Italia. Per far questo ci vorrebbero 7 miliardi mentre sul piatto per ora ce ne sono circa 1,7. I principi del SIA sono quelli dell’individuazione dei beneficiari e della presa in carico per favorire il ritorno alla piena attività e la ricerca di lavoro. La logica del SIA dunque è pienamente in linea con gli ideali descritti all’inizio e va nella direzione giusta. Gli ostacoli che si frappongono ad un risultato ottimale sono però molti.
Sappiamo tutti quanto misure di sostegno di questo tipo creino la tentazione di mettersi in nero, nascondere la propria situazione di non necessità e intascare il sussidio anche in assenza di effettivo bisogno. E sappiamo anche quando sia difficile (e costoso in termini di denaro e di tempo) il compito della presa in carico da parte delle organizzazioni che cercano di aiutare il reinserimento sociale di chi ha bisogno. Per questi motivi diventa essenziale un’analisi delle migliori pratiche locali in materia di gestione del SIA per riuscire ad identificare, in questa fase di sperimentazione, dove questi due rischi sono stati affrontati e superati nel modo migliore. Dalle prime esperienze sul campo, coerentemente con quanto abbiamo detto sinora, appare ad esempio utile ed efficace la richiesta di una controprestazione sociale al ricevente anche nella fase delicata in cui non riesca a trovare un nuovo lavoro.
Controprestazione che abbia un costo in termini di tempo in modo tale da poter disincentivare alla richiesta di sussidio chi è in nero e non ne avrebbe bisogno e sta sottraendo risorse ad altri più bisognosi. Non si tratta evidentemente del prezzo da pagare del sussidio ma di qualcosa che va all’essenza stessa della possibilità di recuperare la propria dignità reinserendosi nel tessuto sociale. Partendo da questi capisaldi non resta che continuare a sperimentare e a confrontare esperienze sapendo che non abbiamo la soluzione perfetta in mano, che qualche risultato, seppur imperfetto, è meglio di niente e che la direzione è quella giusta.