Essere pessimisti sullo scenario libico, e ritenere quindi che il cessate il fuoco, annunciato simultaneamente dal primo ministro Fayez al-Sarraj e dal presidente del Parlamento rivale di Tobruk, Aguila Saleh, sia destinato a fallire, è così facile da non meritare neppure lo sforzo di un ragionamento. In passato, infatti, ogni tentativo per comporre la frammentazione si era sempre trasformato in un clamoroso insuccesso.
Eppure l’annuncio a sorpresa da Tripoli e da Tobruk merita di essere osservato e incoraggiato, oltre a fornire spunti interessanti per la ripresa di un’azione politica dell’Italia. Innanzitutto questa duplice dichiarazione rilancia in qualche modo il ruolo delle componenti libiche nel conflitto dopo mesi in cui tutte le narrazioni parlavano solo di Russia, Turchia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti, come se la Libia fosse una scacchiera in cui le forze locali non contavano più nulla. Sarraj e Aguila, con tutti i loro limiti, rimarcano in qualche modo il fastidio che mostrano molti libici nell’essere manovrati come semplici pedine passive.
Diventa invece ancora più problematica la posizione dell’ineffabile generale Khalifa Haftar, il presunto uomo forte che lo scorso aprile ha tentato con la forza di prendere Tripoli. Haftar ha fallito, come sempre nella sua carriera militare e politica, ed è ora in grave difficoltà. A difenderlo a spada tratta sono rimasti solo gli Emirati che, da quanto sembra, gli hanno imposto di rigettare l’accordo sul cessate il fuoco. Il generale del resto non ha molte altre possibilità che continuare a fingere di essere una possibile soluzione del problema Libia e non, già uno dei principali ostacoli alla sua stabilizzazione.
Una finzione sempre più evidente di cui l’Italia, nel recente passato inutilmente troppo accomodante con lui, dovrebbe prendere definitivamente atto. Ma l’accordo ci racconta molte cose anche a livello regionale: l’Egitto ha subito sostenuto con entusiasmo il cessate il fuoco. Al di là delle sue roboanti affermazioni, del resto, al-Sisi non aveva alcuna voglia di entrare nel conflitto libico; un accordo di compromesso tutelerebbe certo maggiormente gli interessi egiziani in Cirenaica che non una incerta e costosa avventura militare.
Alcuni analisti ritengono che i veri promotori dell’accordo siano Turchia e Russia, schierate rispettivamente con Sarraj e con Haftar, per spartirsi fra loro il Paese. Una lettura troppo semplicistica e unilaterale: in realtà, entrambi questi Paesi hanno visioni più complesse e a volte contraddittorie. Ankara sa che, premendo sul pedale del conflitto, rischia di isolarsi ancora di più e di rafforzare la determinazione di chi si oppone al governo di Tripoli. Oltre a mettere a rischio il suo recente accordo bilaterale sullo spazio marittimo e a bloccare quella ricostruzione del Paese da cui spera di ricavare molte commesse.
Mosca sa che, dovesse cadere l’Amministrazione Trump, l’ostilità americana verso la sua presenza aumenterebbe notevolmente: Bengasi vale uno scontro aperto con la Turchia e le reazioni Nato a una sua presenza stabile e ufficiale sulla sponda sud del Mediterraneo? Il successo dell’accordo sancirebbe poi anche la sconfitta della Francia, che per anni si è mossa in modo cinico e spregiudicato per favorire Haftar, sfruttando oltre ogni decenza la crisi della politica estera europea e l’evanescenza della visione statunitense. Non è un mistero che Trump sia affascinato dagli uomini (presunti) forti, e abbia agito in questi anni per smantellare l’azione della sua stessa diplomazia in Libia.
Al punto che ora gli Stati Uniti sono un’assenza di cui si sente molto la mancanza. Ma chi può beneficiare di questo accordo è proprio il nostro Paese. Senza velleitarismi, per carità: abbiamo pochi margini d’azione, la nostra reputazione è oggettivamente diminuita, e nel governo davvero pochi sembrano avere una visione geopolitica dello scenario mediterraneo all’altezza della nostra tradizione passata. Ma dato che abbiamo puntato sulla politica e non sulle armi, quando tutto sembrava dire che solo le armi contavano, possiamo avere un ruolo nel ricercare una soluzione che sia po-litica, dato che non è arrivata manu militari. Abbiamo del resto a Tripoli rappresentanti di grande esperienza e capacità: una presenza utile per favorire un’azione forte italiana per aiutare la ripartenza dei pozzi petroliferi, senza l’attività dei quali in Libia saranno presto alla fame.
Possiamo e dobbiamo inoltre rilanciare l’assistenza per migliorare la disastrosa gestione amministrativa e delle strutture del Paese ed essere pronti a canalizzare il ritorno diplomatico degli Usa se Biden dovesse vincere la corsa alla Casa Bianca. Insomma, dopo una stagione di afonia e di tentennamenti, noi italiani dobbiamo cercare di tornare a essere più incisivi. Per i nostri interessi, per quelli dei libici e di tutto il Mediterraneo.