Nelle settimane prima delle elezioni si era diffuso il timore – o la speranza, in qualcuno – che Hassan Rohani finisse con l’essere il primo a rompere la tradizione che vede tutti i presidenti della Repubblica islamica dell’Iran rieletti per il loro secondo (e ultimo) mandato consecutivo. In particolare, dopo che il fronte conservatore e ultraconservatore si era compattato – con il ritiro del popolare sindaco di Teheran e ex comandante dei potenti pasdaran, Mohammad Ghalibaf – attorno alla figura del religioso Ebrahim Raisi, a capo della fondazione religiosa più ricca e potente, apprezzato anche dagli ultraconservatori, dalla Guida suprema del Paese, ayatollah Khamenei, e palesemente prediletto dalla stampa e dalla tivù ufficiale. Così non è stato: ancora una volta, come già avvenuto nel 2013, gli iraniani si sono recati in massa alle urne. Ancora una volta, i vertici del movimento riformista – muovendosi informalmente – hanno saputo mobilitare i propri sostenitori a favore di Rohani.
Non che egli sia un riformista in senso stretto; tuttavia, il presidente ha saputo in questi anni parlare a questa parte della popolazione, che rappresenta la maggioranza nel nazione, ma che è privata dal sistema della possibilità di essere rappresenta politicamente, e si è fatto carico di parte delle loro istanze. Le lunghe code ai seggi si spiegano soprattutto con la paura della vittoria del fronte conservatore, che aveva puntato tutto su di una campagna demagogica e populista verso i ceti rurali e meno abbienti. Massiccio anche il voto dall’estero: chi non voleva esprimere la propria preferenza perché, in fondo, «non abitiamo più in Iran», ha ricevuto inviti a farlo dai familiari dato che «noi invece abitiamo ancora qui e abbiamo bisogno del tuo voto».
Sarebbe bello immaginare che la riconferma di questo presidente pragmatico e moderato si traduca in una continuazione della politica di apertura da parte di Teheran, che ha trovato nella firma dell’accordo nucleare con l’Onu del luglio 2015 il suo momento più alto. È quello che in fondo vuole la maggior parte degli iraniani: il rifiuto della contrapposizione settaria in Medio Oriente e di un confronto muscolare con l’Occidente, la prosecuzione delle riforme economiche e sociali, maggior efficacia nei tentativi di liberalizzare la società e le istituzioni con un programma riformista. È tuttavia pericoloso illudersi: tradizionalmente, i presidenti iraniani sono più deboli durante il loro secondo mandato. Khamenei li ha sempre ostacolati con maggior veemenza durante il loro ultimo quadriennio e non c’è motivo di ritenere che con Rohani le cose andranno diversamente. Soprattutto se il governo cercherà di ridurre le molte storture di un’economia clientelare e corrotta, in cui prosperano le fondazioni religiose conservatrici e le società ombra dei pasdaran, il cui potere è ormai tracimato in tutti i gangli del nizam, come viene chiamato il sistema della repubblica islamica. Difficoltà resa ulteriormente più ardua dalla nuova amministrazione Trump.
A Washington si sono infatti nuovamente addensate le nubi della retorica antiiraniana: il presidente e i suoi uomini fanno sfoggio di una ostilità irriducibile verso la repubblica islamica che piace molto a Israele e all’Arabia Saudita. Un Paese, quest’ultimo, contro cui Trump aveva puntato il dito durante la sua campagna elettorale, ma verso il quale sembra ora molto più accondiscendente. A dimostrazione di quanto le lobby e gli interessi industriali contino ancora alla Casa Bianca. Paradossalmente, con la loro politica sauditi e americani finiscono con il 'correre in soccorso' degli ultraconservatori sconfitti.
Non sfugge come il linguaggio degli estremisti – a Teheran come a Washington – si alimenti vicendevolmente. I toni esagitati del presidente statunitense contro l’Iran sono il miglior assist per la parte peggiore e più pericolosa del regime iraniano e un colpo alla politica di avvicinamento prudente all’Occidente di Rohani, invisa a Khamenei. Ma se la anziana e malata Guida suprema dovesse venire a mancare in questi anni, ecco allora che il ruolo del presidente potrebbe essere ridefinito, nella sostanza delle cose, se non de jure. Anche per questo, la netta vittoria di Rohani è un segnale importante.